Discorso politico e verità nello stato costituzionale

28 Gen 2019

  «Che cos’è la maggioranza?

La maggioranza è la follia, il senno è sempre stato solo di pochi»1.

 

Le recenti riflessioni in tema di “democrazia populista”, nelle quali si è notata la «egemonia dell’opinione della maggioranza» e le tendenze «totalizzanti nella sfera dell’opinione»2, pare richiamino all’attenzione una questione di fondo: il rapporto tra lo stato costituzionale pluralista e la verità.

E’ stato notato l’indissolubile legame tra lo Stato costituzionale e la verità, non in quanto regime di una verità assoluta presupposta, bensì quale tipologia consegnata «nelle sue premesse […] a una perpetua ricerca della verità»3 e che si caratterizza «per la consapevolezza di non essere in possesso di precostituite verità eterne, ma di essere invece destinato a una mera ricerca della verità»4.

Al contempo, è stato sottolineato come la questione della verità nella democrazia pluralistica si ponga in termini problematici nel rapporto, tra gli altri, tra verità e maggioranza5. Così, alle tesi giusta le quali la vincolatività delle norme sarebbe fondata dalla maggioranza e non dalla verità, si contrappone, tra altre, l’osservazione che «Il postulato della ricerca della verità deve del resto precedere ogni desiderio della maggioranza e dunque presuppone necessariamente procedure aperte, pubbliche»6.

Si apre così la via ad alcune possibili questioni relative al procedimento di formazione della decisione pubblica.

In primo luogo, dovendosi necessariamente prendere le mosse dall’idea secondo cui «il bene e il «vero» […] devono essere ricercati a partire dalla legittima pluralità dei punti di vista, delle visioni del mondo, delle convinzioni morali e politiche»7, può porsi il problema dell’eventuale difetto «di apertura alla pluralità delle opinioni»8.

In secondo luogo, – ed è ciò su cui si vuole soffermare l’attenzione – si pone la questione delle caratteristiche che deve avere il discorso pubblico che si svolga nell’ambito del procedimento decisionale. Si ritiene ch’esso debba essere un discorso che, ferma la necessità che siano veri i fatti9ai quali faccia, per qualunque fine o ragione, riferimento, dovrà svolgersi, nel rappresentare quel che si ritiene essere il bene comune ovvero ciò che si pensa sia realmente vero, attraverso argomenti ragionevoli e, per questo, idonei a persuadere10: un “logos ragionevole”.

Si pone così la necessità che quello che pretende di affermarsi, nel costruttivo confronto con gli altri, sia un discorso di verità. In un contesto dove è pur riconosciuta a tutti la libertà di parola e dove, pertanto, ogni discorso gode di formale eguaglianza, si introduce la differenza che caratterizza, in quanto tale, il discorso ragionevole, il discorso di verità.

Richiamando l’indagine svolta da M. Foucault11sul concetto di parresia quale pratica del dire-il-vero e, in particolare, sulla sua declinazione nella forma della parresia politica, emerge l’immagine del discorso che si differenzia in quanto capace di persuasione perché indicizzato alla verità, fondato su argomenti ragionevoli, nel quale si identifica colui che lo pronuncia apparendo, al contempo, dotato delle necessarie qualità morali e intellettuali.

A questa, si contrappone l’immagine del discorso della cattiva parresia, quale discorso incapace di differenziarsi.

Quale esempio di cattiva parresia è portato l’affresco che ne offre l’Oreste di Euripide12.

In luogo del processo ateniese difronte all’Aeropago è chiamata a pronunciarsi, a brevissima distanza dal matricidio, l’assemblea dei cittadini, nella quale prenderà la parola, tra gli altri, un tale dalla bocca senza porta (ἀνήρ τις ἀθυρόγλωσσος), forte della sua sfrontatezza (ἰσχύων θράσει), che confida (πίσυνος) nel tumulto (θορύβῳ) e nella sua rozza parresia (κἀμαθεῖ παρρησίᾳ) ma, tuttavia, capace di persuadere (πιθανὸς): a quell’uomo ignobile (ἐκεῖνος ὁ κακὸς) l’assemblea assegnerà la vittoria, condannando Oreste ed Elettra alla morte.

Così, gli argomenti etici e giuridici, appena abbozzati nel breve confronto tra Oreste e Tindareo precedente alla riunione assembleare, sono accantonati, lasciando spazio alle pulsioni irrazionali.

Si delinea la nuova immagine di oratore: il cattivo parresiasta non possiede qualità morali e intellettuali, non dice necessariamente quello che pensa corrisponda effettivamente alla verità, a ciò che sia meglio per la collettività, ma è mosso esclusivamente dalla ricerca del proprio successo attraverso l’affermazione di quel che corrisponde ai sentimenti e alle opinioni degli uditori: è il «discorso fatto da “tutti”, fatto da “chiunque”, dicendo di tutto, dicendo qualunque cosa, purché sia ben accolto da chiunque, cioè da tutti»13, che pur persuade, ma non in quanto discorso ragionevole che vuole esprimere il vero, bensì in quanto discorso che si avvale di «un certo numero di procedimenti: l’adulazione, la retorica, la passione ecc.»14.

Pare sia questo, oggi, il modello di discorso (e di oratore) vincente, con tutti i rischi che vi sono connessi. A ciò si è giunti nel corso degli anni, a causa di una progressiva degradazione del discorso politico – che ha accompagnato un trasversale smarrimento della funzione profonda assegnata alla politica – anche a causa di fraintendimenti delle istanze, da più parti avanzate, affinché lo stesso non fosse oscuro, distante dalla quotidianità, inaccessibile e finanche non sincero: il “dire-il-vero” non si pone in contraddizione con esigenze di accessibilità ai contenuti, impone anzi il coraggio e presuppone la capacità di far comprendere la complessità dei fenomeni e la difficoltà spesso sottesa alle decisioni, senza obliterarle e quindi senza tradire insopprimibili istanze di verità.

Cogliendo allora l’invito di Michel Foucault15, considerato anche che il discorso vero costituisce garanzia affinché la democrazia si conservi, appare essenziale recuperare la consapevolezza che l’esigenza di un discorso ragionevole in ambito pubblico è insopprimibile e inscindibile dalle istanze di verità connaturate allo stato costituzionale pluralista.

(*) L’autore del testo è un socio di Leg di Roccavignale (Savona)


 

1 F. SCHILLER, Demetrio, attoI, scena I. La citazione è tratta da P. HÄBERLE, Diritto e verità, Torino, 2000, p. 93.

2 Il riferimento è, in particolare, alle riflessioni di N. URBINATI, Leader populisti e gogna istituzionale, in La Repubblica, 22 novembre 2018. Si segnala, inoltre, P. POMBENI, Il cambiamento che non serve al Paese, in il Mulino, fasc. 5/2018, p. 781 ss., dove l’Autore osserva, in particolare, che «L’esigenza di attrarre consenso offrendosi come incarnazione dei sentimenti irrazionali della gente contagia tutti i politici», che «E’ tramontata l’idea che anche l’opposizione è una componente importante del sistema, per cui con essa il confronto deve essere costante e interessato a cogliere i punti di contatto o i suggerimenti che possono rivelarsi utili», e dove nota, infine, il «declino della consapevolezza della posizione costituzionale del governo come strumento a servizio dell’intera collettività». Cfr., altresì, E. ALBAMONTE, Populismo e giustizia, la tensione conflittuale alla lunga porta guasti, in Guida al Diritto, fasc. 42/2018, p. 8, dove si nota che l’insofferenza del populismo nei confronti dell’intermediazione, specie ove si tratti di intermediazione professionalizzata, «si connota per l’esaltazione della volontà popolare, che si vorrebbe tradotta in decisione e quindi in azione pubblica, senza tollerare filtri o mediazioni» e, d’altra parte, che l’insofferenza verso la complessità dei fenomeni e dei procedimenti di formazione delle decisioni «rende incomprensibile e inaccettabili processi che, come quelli giudiziari, giungano a una soluzione attraverso la mediazione e la ricerca di un giusto equilibrio, nel caso concreto, tra valori, interessi e diritti in conflitto tra loro».

3 P. HÄBERLE, Diritto e verità, cit., p. XVI.

4 Ibidem, p. 85.

5 Ibidem, p. 93.

6 Ibidem, p. 94. Che il principio di maggioranza sia spesso usato quale argomento di critica nei confronti della democrazia, nella quale la verità si fonderebbe sulla volontà della maggioranza, è notato in G. ZAGREBELSKY, Contro l’etica della verità, Bari, 2008, p. 89, dove si sottolinea che «non è affatto vero che le democrazie contemporanee non si preoccupino di questo rischio. Anzi, proprio su questo punto le democrazie liberali […] hanno approntato il loro rimedio. In effetti, esse iscrivono solennemente in testi fondamentali, intoccabili dalle maggioranze, i principi dell’etica pubblica, sotto forma di diritti e doveri fondamentali», e, dopo aver richiamato l’istituzione di organi di garanzia quali custodi del patrimonio di principi comuni, si osserva che «Le democrazie si affidano, in ultima e decisiva istanza, al dibattito pubblico e alla consapevolezza dei loro cittadini, difesi da diritti inviolabili». Analoghi riferimenti in P. HÄBERLE, Diritto e verità, cit., p. 94, ove si sottolinea che «l’applicazione del principio di maggioranza nello stato costituzionale risulta differenziata non solo in base agli ambiti di vita, ma anche in virtù dei diritti fondamentali, di garanzie particolari delle minoranze e di un unanime consenso di base».

7 Così G. ZAGREBELSKY, Intorno alla legge – Il diritto come dimensione del vivere comune, Torino, 2009, p. 30

8 Ibidem.

9 Cfr. G. ZAGREBELSKY, Contro l’etica della verità, cit., p. 125, dove si osserva che «Per preservare l’onestà del ragionare, deve essere prima di tutto rispettata la verità dei fatti».

10 Non sarà allora necessario che la decisione sia frutto della persuasione di tutti perché possa comunque essere adottata dalla maggioranza benché, in tal caso, alla decisione comunque assunta dovrebbe accompagnarsi una qualche amarezza, quella di non essere riusciti a formulare una soluzione quanto più possibile condivisa. Di «ragioni capaci di persuasione» e di «argomenti generalmente considerati ragionevoli e quindi suscettibili di confronti, verifiche e confutazione; […] accettabili come plausibili, in quanto appartenenti a un comune quadro di senso e di valore» parla G. ZAGREBELSKY, Intorno alla legge – Il diritto come dimensione del vivere comune, cit., pp. 31 e ss. Inoltre, che ciascuna parte debba portare le proprie ragioni come suscettibili di rivisitazione e, eventualmente, di abbandono ove efficacemente confutate dalle altre parti, in ciò concretizzandosi l’atteggiamento di ricerca della verità che già le avrebbe dovute accompagnare nella formulazione iniziale, è ancora notato in G. ZAGREBELSKY, Contro l’etica della verità, cit., p. 125, dove si richiama il rallegrarsi «di scoprirsi in errore» quale «virtù massima di chi ama il dialogo».

Di «processo deliberativo […] inteso […] come un processo di formazione delle opinioni» nel quale «i partecipanti non debbono […] avere opinioni pienamente o definitivamente formate in partenza» e siano «pronti a modificare le opinioni iniziali alla luce degli argomenti addotti dagli altri partecipanti, e anche per effetto delle nuove informazioni che si rendono disponibili nel corso del dibattito» parla A.O. HIRSCHMAN, Retoriche dell’intransigenza – Perversità, futilità, messa a repentaglio, Bologna, 2017, p. 171.

11 M. FOUCAULT, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Milano, 2009.

12 Tra le molte, si segnala EURIPIDE, Oreste, a cura di E. Medda, Milano, 2001.

13 Ibidem, p. 178. Cfr., sulla nozione di parresia politica, le pp. 147 ss.

14 Ibidem, pp. 163-164.

15 Ibidem, p. 179, ove si legge: «Ebbene, in un’epoca come la nostra – in cui si ama tanto sollevare i problemi della democrazia in termini di distribuzione del potere, di autonomia di ognuno nell’esercizio del potere, in termini di trasparenza e di opacità, di rapporto tra società civile e stato – credo sia forse un bene richiamare questa vecchia questione, che è stata contemporanea al funzionamento stesso della democrazia ateniese e alle sue crisi: cioè la questione del discorso vero e della cesura.

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