Il masochismo istituzionale di chi celebra Andreotti

24 Gen 2019

All’Eur campeggia una  scritta tratta da un discorso di Mussolini del 1935. Con la solita esaltata  esagerazione (che il nostro Paese pagherà assai cara) la dura mascella del Duce aveva proclamato che gli italiani sono un popolo di eroi, santi, poeti, artisti , pensatori, scienziati, navigatori, colonizzatori, trasmigratori. Una lunga  lista, che  talora si è pensato di modificare. Cancellando ad esempio la parola “trasmigratori”,  per qualcuno ormai  sinonimo di “pacchia”. Oppure inserendo “evasori” e “corrotti”.  Magari persino “mafiosi”,  non fosse per la resistenza di quanti ( pur abbondando in Italia i problemi di mafia)  sono   convinti che il nostro sia  anche il   paese dell’antimafia. Per molteplici ragioni: dal  tragico prezzo pagato con un’infinità di vittime, alle norme d’avanguardia (il reato associativo del 416 bis con relativo concorso esterno), al fiore all’occhiello dell’antimafia sociale, che ai boss dà fastidio più delle manette.

Ma proprio sul versante dell’antimafia  ecco la  paradossale tentazione di aggiungere alle qualità italiche elencate dal Duce quella  di …“masochisti”.  Penso alle manifestazioni  del centesimo anniversario per la  nascita di Giulio Andreotti: non tanto in sé (ovviamente ognuno celebra quel che  vuole), quanto piuttosto per il solenne patrocinio del Senato della Repubblica. In questo contesto  temo infatti una sorta  di “masochismo istituzionale” a causa del  velo  calato sull’esito del processo di Palermo  per mafia: un macigno  che sulle spalle dell’imputato pesa  come una montagna dopo il verdetto di  provata colpevolezza  fino al 1980, per aver commesso (commesso!) il delitto di associazione a delinquere con Cosa nostra.  Senza che il peso di questa irreversibile  responsabilità penale possa essere scalfito dalle fake news che confondono prescrizione con assoluzione (un oltraggio al buon senso quando il reato è “commesso”).

Ma al  di là del verdetto,  contro il “masochismo istituzionale”  sarebbe bene tener conto di un altro macigno emergente  dal processo: l’esistenza del “polipartito della mafia” con cui Dalla Chiesa indicava la compenetrazione illecita fra Cosa nostra e alcuni settori politico-amministrativi.  Andreotti era dentro il “polipartito”, di cui  facevano parte anche  –  fra gli altri – Vito Ciancimino,  Salvo Lima, i cugini Ignazio e Nino Salvo, Michele Sindona.  Chi  fossero costoro  e come interagire con loro Andreotti lo sapeva benissimo.

Ciancimino,  responsabile dello scempio urbanistico di Palermo, nonostante le collusioni  mafiose emerse, riuscì ad instaurare con la corrente di Andreotti un solido rapporto, invano ostacolato da Pier  Santi Mattarella e poi da  Sergio Mattarella.

Alter ego di Andreotti in Sicilia era Salvo Lima, punto di riferimento di varie famiglie mafiose,  che  a lui si rivolgevano anche  per l‘aggiustamento di processi. Questa stabile collaborazione con Cosa nostra assicurava alla corrente andreottiana  voti in cambio di favori illeciti.  Un’interazione che era fonte  reciproca di ingenti disponibilità finanziarie.

I cugini Salvo – mafiosi e massoni  –  costituivano, insieme a Lima, un’architrave del potere andreottiano in Sicilia.  Forti di un impero economico-finanziario costruito  grazie agli spropositati aggi concessi alle  loro esattorie private, foraggiavano vari politici, in particolare la corrente andreottiana.  Giacomo Mancini ha testimoniato che i cugini Salvo  “comandavano la Sicilia” e “lo sapevano anche a Torino”.

Furono Lima ed i cugini Salvo  ad affiancare Andreotti  nei due incontri organizzati in Sicilia con il boss Stefano Bontate per discutere il caso dell’integerrimo Pier Santi Mattarella, entrato in rotta di collisione con la mafia e alla fine da questa trucidato.

Michele Sindona riciclava per Cosa nostra (in particolare per  Bontate). Impressionante è la sequenza di pressioni per favorirlo, anche dopo l’emissione di un ordine di cattura per bancarotta fraudolenta. Chi osava opporsi rischiava:  anche  il carcere, dove finì ingiustamente il vicedirettore della Banca D’Italia Sarcinelli, mentre al  Governatore Baffi  fu evitata l’infamia solo per ragioni di età. Giorgio Ambrosoli fu  addirittura ucciso  su ordine di Sindona per l’onestà con cui si era opposto al salvataggio del bancarottiere siciliano, a favore del quale  invece si mobilitarono   Andreotti,   altri   politici, ambienti mafiosi e rappresentanti della loggia massonica P2.  Anni dopo l’omicidio Ambrosoli, Andreotti lo commentò in maniera beffarda con le sinistre parole  che “se l’era cercata…”

Dunque,  il “polipartito della mafia”  ha operato concretamente  come un tentacolare  intreccio, torbido e velenoso. Non si tratta di  teoremi o di  accidenti o di bagatelle che si possano rimuovere. In questo modo si fa, appunto, del “masochismo istituzionale”. Si fa del male alla democrazia. Perché se in certi  periodi essa ha dovuto  registrare una salute debole, buona cosa sarebbe ricordarne le cause,  affinché il bubbone  dei rapporti mafia-politica non si  perpetui. Ma  non è  certo con le amnesie che si curano  i  bubboni.

Huffington Post, 14 gennaio 2019

Supportaci

Difendiamo la Costituzione, i diritti e la democrazia, puoi unirti a noi, basta un piccolo contributo

Promuoviamo le ragioni del buon governo, la laicità dello Stato e l’efficacia e la correttezza dell’agire pubblico

Leggi anche

Newsletter

Eventi, link e articoli per una cittadinanza attiva e consapevole direttamente nella tua casella di posta.