IL CASO UNGHERIA/IL NO DEL POPOLO ALLA LEGGE SCHIAVISTA

21 Dic 2018

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

I populisti autoritari hanno conquistato il consenso con la propaganda di “prima i nostri”. Ma non hanno mai specificato chi tra i “nostri” sono i “loro” preferiti. Bisogna vederli al governo per capirlo. Le manifestazioni che da quasi una settimana riempiono le piazze di Budapest dimostrano che i preferiti “nostri” dei governi populisti autoritari non sono il “popolo” ma una parte di esso: una classe imprenditoriale che confida nel bisogno di lavoro che tutti hanno, e che per accumulare in fretta si libera dai lacci dei diritti del lavoro; una maggioranza silenziosa che confida nei favori che il governo deve elargirle per tenersela amica. La stretta sul pluralismo dell’ informazione e su altri diritti civili, denunciata ancora di recente dalla Commissione di Venezia, organo consultivo del Consiglio d’Europa, ha aiutato l’attuazione di questa politica. Fino ad ora.

A scuotere l’opinione, c’ è voluta una legge che consente agli imprenditori di aumentare fino a 400 il numero annuo di ore di straordinario, con la possibilità di dilazionarne il pagamento fino a tre anni. È stata chiamata per questo “legge schiavista”. La norma dovrebbe risolvere il problema della scarsità di manodopera, causata dalla tolleranza zero verso l’ immigrazione. L’ esito si sta ritorcendo contro il leader Victor Orbán.

La chiusura delle frontiere e le politiche restrittive delle libertà civili hanno reso l’ Ungheria un paese non più benestante ma certamente più corrotto e soffocante per molti cittadini, soprattutto giovani e laureati, che hanno preso la via dell’ emigrazione. “Prima gli ungheresi” dunque, ma dopo aver selezionato quali tenere e quali favorire: le classi imprenditoriali e manageriali e il ceto medio impiegatizio obbediente.

Il caso ungherese merita attenzione, perché è il paese termometro dello stato di salute dei governi populisti. Orbán si è imposto sulla scena internazionale dichiarando guerra alla democrazia liberale, e sostenendo che ci può essere una democrazia illiberale, più efficiente e in sintonia con gli interessi della nazione, perché con meno dissenso e poca opposizione. Dal 2013 il suo partito gode di una maggioranza di due terzi che gli ha consentito di tosare la Costituzione di alcuni requisiti fondamentali: indipendenza della magistratura, pluralismo dell’ informazione, libertà di stampa, di parola e di associazione. Alle preoccupazioni sollevate dalla Ue, Orbán ha risposto che “la gente si preoccupa delle bollette, non della Costituzione”.

Ma a quanto pare, gli ungheresi si preoccupano anche della Costituzione, se è vero che gli slogan che hanno portato migliaia in piazza per giorni hanno al centro due libertà: quella dell’ informazione e quella della libera contrattazione sindacale. Le tappe della tirannia della maggioranza sono le stesse di sempre: per stare in sella a lungo senza abolire le elezioni, chi governa deve mantenere una base larga di supporters e controllare l’informazione.

L’esito è anch’esso lo stesso di sempre: un’opposizione parlamentare debole che tuttavia riceve forza dalla società e dai movimenti di cittadini. L’ Ungheria ci regala una nota di ottimismo: nessuno può rivendicare di avere l’ ultima parola, nemmeno un egocrate autoritario con larga maggioranza parlamentare, perché la democrazia sta anche fuori delle istituzioni e si manifesta con il dissenso, un ossigeno della mente che non può essere facilmente ingabbiato. E non tarda a liberarsi e a riaprire i giochi.

 

la Repubblica, 20 dicembre 2018

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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