A settant’anni dalla Dichiarazione universale

10 Dic 2018

Redazione

Sono trascorsi settant’anni dall’approvazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il 10 dicembre 1948. Un documento che nasce dalla consapevolezza che il “disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità”.

E dalla convinzione che solo superando la logica del nazionalismo, e di quello che oggi si chiama “sovranismo”, sarà possibile porre fine alla guerra, alla discriminazione razziale, allo sfruttamento, garantendo a ogni essere umano, indipendentemente dal luogo in cui è nato, un insieme irrinunciabile di diritti civili, politici e sociali. Di quello spirito, oggi, sembra essere rimasta poca cosa.

Se pensiamo alla politica di casa nostra, non si può non provare sgomento di fronte alla maggioranza schiacciante di 336 “sì” con cui è stato convertito in legge, alla Camera, il cosiddetto “decreto sicurezza”. Un provvedimento vergognoso, che sembra stato scritto apposta per negare sicurezza, dignità, diritti alle persone straniere (attraverso lo smantellamento del modello di accoglienza diffusa degli SPRAR, l’abolizione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, il prolungamento del periodo di detenzione senza processo nei Cas e nei Cpr, il divieto di iscrizione all’anagrafe per i richiedenti asilo).

E che si distingue per una previsione dal sapore inequivocabilmente razzista, come l’introduzione della “cittadinanza revocabile” per i soli stranieri naturalizzati. Sarebbe facile e in un certo senso liberatorio sostenere che tutto ciò non ci riguarda: che è l’effetto di un virus che ha aggredito il corpo sano del paese con l’ascesa al potere dei “populisti”. Sappiamo, purtroppo, che non è così.

Ciò che accade oggi viene da lontano: la prassi della detenzione prolungata di persone colpevoli solo di trasgressioni di tipo amministrativo – in assenza addirittura delle garanzie previste per la carcerazione vera e propria – è iniziata con la legge Turco-Napolitano; la trasformazione dell’immigrazione da diritto a reato e l’introduzione dell’aggravante di clandestinità (poi dichiarata incostituzionale) risalgono alla Bossi-Fini; la compressione dei diritti della difesa dei richiedenti asilo è stata voluta da Minniti, per non parlare del “codice di condotta” per le ONG impegnate nei salvataggi nel Mediterraneo, che hanno aperto la strada alla criminalizzazione della solidarietà e alla chiusura dei porti da parte di Salvini.

Se oggi provvedimenti francamente razzisti non suscitano la reazione di indignazione e di resistenza che ci aspetteremmo (a partire dal Presidente della Repubblica, che ha rinunciato a rinviare alle Camere il decreto sicurezza) è anche perché da tempo l’idea di un “diritto diseguale” è penetrata nel nostro ordinamento, e nelle nostre coscienze, normalizzandosi e finendo col passare (quasi) inosservata.

E’ allora urgente tornare a riflettere sui fondamenti del nostro vivere associato, proprio a partire dalla Dichiarazione universale del 1948, di cui è bene ricordare alcuni articoli: “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese” (art. 13), “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni” (art. 14), “Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza” (art. 15).

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10 dicembre 2018

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