Privatizzazioni, obiettivo sbagliato e suicida per la società

03 Dic 2018

Tomaso Montanari

L’impegno che il ministro Tria ha messo nero su bianco, scrivendo alla Commissione europea (“innalzare all’ 1% del Pil per il 2019 l’ obiettivo di privatizzazione del patrimonio pubblico”, cioè per 18 miliardi di euro) è insieme irrealistico e dannoso.

Appare evidente che la previsione sia campata per aria: basta ricordare che per incassare 25 miliardi di euro ci sono voluti 9 anni (dal 1999, anno di istituzione dell’ Agenzia del Demanio, al 2008). Ma è l’ obiettivo in sé a essere sbagliato, anzi suicida.

Il patrimonio immobiliare pubblico è la risorsa strategica per mettere in atto qualunque politica sociale: e cioè per attuare la prima parte della Costituzione ponendo rimedio a diseguaglianze e ingiustizie. La privatizzazione della vita pubblica e della democrazia nasce dalla privatizzazione dello spazio pubblico delle città.

La dicotomia tra spazio privato e spazio del mercato fa sparire la stessa condizione di cittadino: perché non ci sono alternative, o sei nella tua proprietà o sei un cliente-consumatore. Il bisogno di spazi liberati, che sta alla radice delle occupazioni di immobili abbandonati, cerca risposte pubbliche. Per non parlare del diritto negato alla casa.

Vendere lo spazio pubblico, significa rinunciare ad avere un progetto di inclusione, riscatto sociale, ricostruzione della cittadinanza. Non solo: significa anche legare le mani alle prossime generazioni, che non potranno scegliere. Ed è un modo davvero curioso di difendere la sovranità nazionale quello di assicurare all’ Europa che lo sforamento del deficit sarà garantito dalla vendita del patrimonio nazionale, inevitabilmente destinato a finire in grandissima parte in mano alla speculazione internazionale. L’esempio della Grecia dovrebbe insegnare qualcosa: il porto del Pireo ceduto in blocco alla Cina è il modello cui guarda il governo Salvini-Di Maio?

Anche i precedenti dovrebbero insegnare. L’ apice velleitario della privatizzazione del patrimonio si toccò, grazie a Giulio Tremonti, con la costituzione, nel 2002, della Patrimonio dello Stato Spa, una società per azioni che, almeno teoricamente, avrebbe potuto gestire e alienare qualunque bene della proprietà pubblica. In un colpo solo, lo Stato intero, il complesso della proprietà pubblica, si sarebbe potuto dematerializzare nella forma di azioni.

Un progetto reincarnatosi molte volte: da ultimo, nell’ analoga idea di Marco Carrai, intimo di Matteo Renzi, il quale voleva creare un “Fondo Patrimonio Italia, dove conferire gli asset morti dello Stato per estrarne valore: l’ immenso patrimonio immobiliare pubblico”. In attesa della ‘soluzione finale’ c’ è stato uno stillicidio di alienazioni che hanno di fatto abolito il concetto stesso di demanio, vendendo isole della Laguna di Venezia, castelli e parchi. Il culmine è stato raggiunto dalla legge “più grave e disastrosa di tutte” (Paolo Maddalena), la 85 del 2010 sul cosiddetto federalismo demaniale, che prevede il conferimento agli enti locali, e la possibile, successiva alienazione di beni demaniali, ivi compresi quelli storici e artistici. Infine, il devastante Sblocca Italia di Maurizio Lupi e Matteo Renzi (2014), che mette una taglia sul patrimonio immobiliare pubblico, promettendo una quota degli utili ai Comuni che ne favoriscano la dismissione.

L’idea di vendersi il patrimonio è il cavallo di battaglia dei boiardi formati da Sabino Cassese: come su quasi tutto, il governo del cambiamento non cambia nulla. O meglio, cambia una cosa: prende il programma presentato prima del 4 marzo dal Movimento 5 Stelle – da sempre acerrimo nemico delle privatizzazioni – e ne fa carta straccia.

Certificando così che le annunciate (e giuste) nazionalizzazioni che dovrebbero, al contrario, ricostruire un qualche ruolo dello Stato garantendo l’interesse pubblico, resteranno un miraggio.

Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2018 

 

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