Disobbedienza e confini

01 Dic 2018

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

La disobbedienza civile, che sembra avere acquistato un interesse pubblico dopo l’intervento di Gustavo Zagrebelski su Repubblica, è un oggetto strano e difficile da maneggiare, le cui implicazioni sono imprevedibili e con il fascino proprio delle imprese radicali. Per alcuni (i realisti sovranisti), non è che una forma di ricatto che non può aver legittimità nelle democrazie costituzionali. Per altri (i radicali antagonisti) è una protesta innocua ed essenzialmente ‘borghese’ che non sfida lo statu quo, anzi lo riconferma proprio perché si appella ai fondamenti dell’ordine costituito.

La disobbedienza civile nelle democrazie costituzionali dove la legge, non la volontà del popolo, è sovrana ed esposta a una panoplia di problemi e aporie, come ci ha spiegato Roberto Esposito su Repubblica riproponendo alcuni argomenti di Hannah Arendt e di John Rawls. Un’aporia fra tutte: il disobbediente civile informa le autorità della sua decisione di violare la legge? Rendere pubblica l’intenzione di violare la legge è essenziale affinché la disobbedienza non diventi complotto o trama segreta e clandestina – la democrazia è politica fatta in pubblico, in totale rottura con l’arcano. Eppure, per avere successo, un’azione di disobbedienza deve essere pianificata senza essere pubblicizzata – a questa condizione può diventare una evento efficace. E la sorpresa è un’ingrediente dell’efficacia nell’opinione pubblica, con sperati effetti sulla capacità di mobilitare molti cittadini a sfidare una maggioranza o una legge reputata ingiusta.

Infine, una condizione fondamentale della disobbedienza civile è il suo carattere programmatico non violento. Ma il carattere della non violenza è problematico e contestuale — il ‘che cosa’ abbia carattere non violento è direttamente connesso all’abito politico oltre che giuridico dei paesi e alla definizione di violenza. Oggi, in molti paesi democratici figura come un atto di coercizione violenta l’occupazione di spazio pubblico con sit-in pacifico di dimostranti. Un caso ancora più ecclatate è la disobbedienza digitale – Wikileaks e Edward Snowden – che è criminalizzata come forma di cyber-vandalismo e perfino di terrorismo.

Ma vi è un caso ancora più radicale: quello della disobbedienza alle frontiere degli stati democratici. In generale, gli attori della disobbedienza civile sono i cittadini. Lo status di cittadinanza dà la patente di disobbedienza civile (e della legittima punizione che deve prevedere). I cittadini che si appellano ai loro concittadini e al governo del loro paese per cambiare determinate decisioni sono gli attori ‘legittimi’ della disobbedienza civile. Ma questa concezione, circoscritta sullo status di cittadinanza, non riesce a spiegare e addirittura a riconoscere i migranti come attori politici – che tuttavia politici lo sono, visto anche l’impatto che hanno nelle trasformazione istituzionali e politiche degli stati democratici verso i quali si dirigono.

Secondo alcuni studiosi, l’immigrazione irregolare può essere spiegata come una potente forma transnazionale di disobbedienza perché politicizza il regime dei confini: e quindi, rende politica l’azione trasgressiva di non cittadini. L’immigrazione irregolare esemplifica non solo la forza di reazione difensiva della tradizionale disobbedienza civile, ma anche la sua forza trasformativa e costituente. Nel senso che ci sfida a estendere i limiti della disobbedienza civile oltre gli attori ‘legittimi’ (i cittadini). Chi ‘oltrepassa’ in massa mari e confini di terra fa molto di più che emigrare: contesta la natura stessa della forma delle democrazie costituzionali, che vivono di e nei confini pattugliati. Se entriamo nella logica della disobbedienza civile, le possibilità di applicazione e le implicazioni sono enormi e imprevedibili. Spesso dimentichiamo, che tra le aspirazioni europeiste di Altiero Spinelli vi era quella di rifondare la democrazia mettendo in questioni i confini degli stati.

la Repubblica, 28 novembre 2018

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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