UNA STORIA ITALIANA

25 Nov 2018

Fabrizio Tonello

Qui voglio parlare di una storia che riguarda migliaia di ragazzi come Moussa, inseriti in famiglie italiane. Moussa è un ragazzo africano che è arrivato in Italia nell’agosto di tre anni fa, a 16 anni, con un gommone approdato a Lampedusa.

Lo abbiamo incontrato per la prima volta in un caffè di Bologna, io, mia moglie Antonella, lui e l’operatrice della cooperativa. Noi da un lato del tavolino, loro dall’altro, c’era un grande imbarazzo.

Lui, che è musulmano, ha bevuto un succo di frutta. Noi un bicchiere di vino, era la prima volta che ci incontravamo e per prima cosa ci siamo fatti raccontare la sua storia: era cresciuto con uno zio che dirigeva una scuola religiosa, finanziata dall’Arabia Saudita, il cui scopo istituzionale è creare integralisti islamici. Moussa è credente ma non ha nulla di integralista, anzi avevamo la sensazione che avesse lasciato il suo paese e traversato il Mediterraneo in gommone proprio per sfuggire a quella situazione.

Non ricordo il suo primo giorno in casa, ma mi torna sempre in mente il suo arrivo con una grande valigia, la sua prima valigia. La seconda, invece, era piena di scarpe. Moussa ha una passione sfrenata per le scarpe da ginnastica, ne regala spesso ai suoi amici. Io e Antonella non avevamo figli, siamo una coppia che si è creata tardi nella vita, volevamo non solo offrire uno spazio in casa ma condividere un pezzo del nostro percorso.

Oggi Moussa di mattina lavora come mediatore culturale presso la Cooperativa che inizialmente si era occupata di lui e degli altri minori non accompagnati, mentre la sera frequenta l’ultimo anno di un istituto tecnico per il turismo. Da quando è arrivato ha fatto vari stage, compreso uno disastroso in un albergo della provincia di Treviso, dove è emerso il razzismo che ora non si nasconde più nella nostra società. Per fortuna, devo dire che tutti gli altri datori di lavoro sono sempre stati contenti di lui, soprattutto perché è una delle persone più affidabili che io abbia mai conosciuto.

L’altra grande passione di Moussa è il teatro: ha chiesto di farlo appena è arrivato qui dall’Africa, aveva 16 anni. Il teatro per lui è stato un modo per entrare in relazione con altre persone, non voleva solo stare con altri migranti, voleva stare anche con gli italiani. Una possibilità che oggi scomparirebbe con il cosiddetto Decreto sicurezza, che vorrebbe ampliare e potenziare i Centri di accoglienza temporanea, chiudendo invece le strutture Sprar, le uniche che funzionavano non solo per la protezione umanitaria, ma soprattutto per l’integrazione. Quando si chiudono gli Sprar si finisce a dormire in stazione, come è successo, e succede, a molti compagni di Moussa a Napoli, a Bologna, a Milano.

Un giorno, dopo pochi mesi, Moussa ha cominciato a chiamarci “papà” e “mamma”, parole che fanno un po’ paura per le responsabilità che implicano. Solo dopo abbiamo capito che in Africa sono espressioni di rispetto verso gli anziani, non implicano uno specifico grado di parentela. In ogni caso, “mamma” e “papà” restano parole pesanti, ti danno il senso dei doveri che hai nei confronti di una persona.

Spesso dicono a me e ad Antonella “Ah, ma come siete bravi”. Un’espressione che non ci piace per nulla: “Siamo stati bravi? E tu che potresti fare delle piccolissime cose per essere ‘bravo’ anche tu, perché non le fai?”. Dire “Ah, ma come siete bravi” è un modo per delegare agli altri lo sforzo del prendersi cura di qualcuno. Facciamo quello che dovrebbe essere normale, in un paese civile, in tempi come questi. A volte ci dicono che Moussa ha “degli occhi così carini”. In realtà, basterebbe guardarli tutti negli occhi, questi ragazzi, per leggere la profondità del loro dolore e la luce di speranza che ancora conservano. In questi due anni ci siamo accorti che noi questi ragazzi non li guardiamo mai negli occhi.

Da quando abbiamo Moussa con noi ci siamo resi conto di tante cose e tutto quello che sta accadendo in questo momento col cosiddetto Decreto sicurezza ci fa orrore. Un decreto vendicativo, crudele, controproducente (metterà sulla strada ragazzi che oggi cercano faticosamente di integrarsi) e, soprattutto, incostituzionale. Che sia incostituzionale è evidente: l’articolo 10 della Carta prescrive tassativamente di offrire asilo a chiunque “sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”.

Non ci sono scappatoie, palleggi di responsabilità con Malta o con l’Unione Europea, liste di paesi africani “buoni” o “cattivi”: la Carta sui cui ministri, deputati e senatori hanno giurato prescrive di dare asilo a chi viene da paesi in guerra o da dittature corrotte, ovunque “l’effettivo esercizio” delle libertà democratiche sia ostacolato. La Cassazione, con diverse sentenze emesse dal 2012 al 2018, ha stabilito che i permessi per “protezione umanitaria” sono mezzi di attuazione della disposizione costituzionale: come ha sottolineato il costituzionalista Gaetano Azzariti, “col Decreto si passa all’eliminazione totale di questo status: la protezione umanitaria viene abrogata e sostituita da ipotesi specifiche”.

Il decreto non risolverà nulla, non farà diminuire di una sola unità il numero di migranti in Italia: al contrario renderà precaria, talvolta clandestina, la presenza di migliaia, forse decine di migliaia, di ragazzi che si stanno pacificamente integrando nella società italiana.

(*) L’autore, socio di Libertà e Giustizia, è docente della Scuola di Economia e Scienze politiche di Padova.

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