Il primo giorno della rivoluzione

17 Nov 2018

La discussione sul reddito di cittadinanza si è concentrata su quali potranno essere i suoi effetti, che la maggior parte degli osservatori prevedono palliativi e altri invece propulsivi e comunque necessari. Come ogni intervento di questa portata, il provvedimento non può però essere valutato solo per il suo diretto scopo economico-sociale, ma anche per la tendenza di mentalità politica che favorisce tra i cittadini. E su questo piano è secondo me molto criticabile la scelta di presentarlo come la prima vittoria dei poveri nel conflitto sociale contro i benestanti. Far credere a milioni di cittadini che sarà il conflitto sociale a produrre giustizia sociale è ingannarli, perché la logica del conflitto è la stessa “logica” della globalizzazione che provoca la loro miseria.

Non è un caso che i tentativi di affrontare le contraddizioni poste dalla logica del conflitto portino la sua impronta e siano quindi in realtà sue manifestazioni. Questa logica ha infatti depotenziato in genere la creatività politica. Lo ha fatto attenuando la differenza tra la critica che viene da sinistra e quella della destra, le quali non sono più in grado di proporre un discorso pubblico alternativo. Il fatto che cambino i termini della loro contrapposizione (poveri/ricchi, italiani/stranieri, stati nazionali/Europa) è significativo sul piano morale, ma diventa relativamente importante in senso politico perché è indifferente in linea di principio per il sistema. Quando i partiti di governo liquidano destra e sinistra come categorie superate mostrano perciò la loro autentica natura: non sono affatto la rivincita del popolo sulla finanza ma forme con cui la globalizzazione prosegue astutamente il proprio corso.

Indicare il carattere di un’epoca è sempre azzardato, tanto più quando ci si trova ancora in mezzo a un fenomeno complesso come la globalizzazione. Ma volendo provarci, potremmo dire che la globalizzazione è il sistema in cui la libertà costituisce l’asse di ogni altro valore e coincide puritanamente con la giustizia. Il populismo si presenta come il suo opposto: rivendica la giustizia anche al prezzo di un po’ di libertà (un sacrificio che ovviamente verrà “ripagato” solo con la fine della libertà stessa). Bisogna quindi stare attenti alle apparenze: rispetto alla globalizzazione il populismo è il retro della stessa medaglia, una rottura con il passato che in realtà lo rinsalda e rilancia per come già è, cioè nella spinta a un governo verticale del mondo. Questa spinta si manifesta ormai dovunque, dall’Est Europa al Sud America. All’idea di una “giustizia” senza troppa libertà vorrebbe abituarci Salvini quando fa sapere di sentirsi meglio in Russia che in molti paesi europei. E del tutto piegata verso la giustizia è anche la scena del balcone da cui il governo con gesto onirico ha dichiarato conclusa la storia nazionale della povertà.

Il populismo diventa sovranista quando il rapporto diretto tra popolo e potere – su cui è riposta ogni salvezza – si manifesta in uno dei suoi modi possibili: la volontà di “comandare a casa propria”. É in questo nesso che l’alleanza di governo trova un collante culturale molto serio che va oltre il legalismo del “contratto”. Presto il populismo divenuto sovranista capisce però che per come è interconnesso il mondo non si può comandare a casa propria senza comandare un po’ anche a casa degli altri.

Questo perché, a differenza della sovranità, il sovranismo è per sua natura egemonico, che abbia o meno una base populista. Esiste infatti anche un sovranismo non populista: quello con cui la Germania e la Francia hanno abbondantemente profanato in questi anni l’ideale originario dell’Unione Europea, conquistato in parte l’economia italiana e ferito la Grecia quasi a morte. I sovranisti italiani, austriaci o ungheresi dovrebbero pagare il copyright agli establishment di questi Paesi o anche di Stati influenti come i Paesi Bassi, perché non fanno che ribaltare contro di essi la logica del sovranismo egemonico, che è stata spesso la loro.

Ma in questo modo imitano quanto affermano di detestare – e infatti il loro slogan è “facciamo come i tedeschi”, “facciamo come i francesi”. L’effetto dei sovranismi contrapposti – quello populista e quello da volontà di potenza – è che in Europa anziché alleviare si rischia di aggravare la debolezza delle classi più povere, mentre il mondo sembra diventare ogni giorno più pericoloso e del progetto europeo di pace, diritti e uguaglianza ci sarebbe un crescente bisogno di prove di esistenza.

Purtroppo alla liquidazione dell’orizzonte politico “moderno”, con le sue garanzie e forme stratificate di consenso, contribuisce, per quel che conta, anche quella sinistra che per essere “radicale” aderisce allo schema che contesta e condivide l’habitat dei propri avversari. Tanti elettori della sinistra “radicale”, cioè di quella con poca cultura liberale, guardano con occhio benevolo al M5S ma non per salire sul carro dei vincenti: hanno in comune con il M5S qualcosa di profondo (o di superficiale, dipende), cioè proprio il pensare per conflitto.

Come lucidamente notava già Guy Debord, nell’epoca del capitalismo come “spettacolo integrato” ogni opposizione sedicente “radicale” non può che essere estetica. Offre la sua parte al sistema, che prospera attraverso la messa in scena di un perpetuo, innocuo, primo giorno della rivoluzione. Questo perpetuo primo giorno della rivoluzione è il palinsesto delle dirette facebook da Palazzo Chigi che sono l’equivalente politico dell’avanguardia teatrale degli anni Settanta in cui lo spettatore diventava attore. Una noia pazzesca, ma con tre milioni di visualizzazioni.

(*) L’autore è socio del Circolo LeG di Messina.

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