Renzi, Briatore e la televendita: Firenze come arma di distrazione

19 Ott 2018

Tomaso Montanari

È terribilmente imbarazzante il Matteo Renzi che compare a Cannes, al mercato dell’audiovisivo Mipcom. È imbarazzante lo sguardo ammiccante dei fotografi, che si danno di gomito sussurrando l’incredibile: e cioè che questo gioviale presentatore è l’ex primo ministro italiano. Perché non c’è niente di male che un uomo pubblico, chiusa la sua esperienza politica, torni al proprio lavoro: ma qua il punto è che non c’è nessun lavoro.

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Non c’è letteralmente né arte né parte: e il vero filo conduttore di un triste spreco esistenziale è l’esser pronto a tutto, essendo capace di niente.
È imbarazzante la tirata sulla politica dell’amore, contro la disumanità di Salvini. Dio sa se c’è bisogno d’amore, ed è evidente la bestiale strumentalizzazione della paura e della povertà di cui Salvini è campione. Ma la padella non ha titoli per rimproverare la brace.
È imbarazzante infine la compagnia: quella di Flavio Briatore. Una presenza che ha almeno il merito di chiarire l’orizzonte di valori condiviso dai due: il primato del denaro, il disprezzo delle regole, il successo personale come obiettivo supremo.
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Ma il cammeo di Briatore a Cannes dice anche qualcosa di più. Dice come Renzi veda davvero l’arte di cui parla in continuazione: quella “bellezza” che da sempre usa come un suo peculiarissimo cavallo di battaglia. La bellezza come sinonimo di lusso, la bellezza come prodotto di consumo, la bellezza come business. La bellezza, e questo è il Renzi sindaco presidente del Consiglio, strumentalizzata e usata come arma di distrazione di massa.
Quando – ormai sei anni fa – uscì da Rizzoli il suo libro sulla bellezza (il titolo era all’insegna dell’understatement: Stil novo. La rivoluzione della bellezza tra Dante e Twitter) lo scrittore Paolo Nori commentò: “Il nuovo libro di Matteo Renzi mi sembra molto difficile da riassumere. Si apre con un’epigrafe di Camus (‘La bellezza non fa rivoluzioni, ma viene il giorno che le rivoluzioni hanno bisogno di lei’) e parla di molte cose: di bellezza, di Firenze, dell’Italia, dell’America, del mondo. Di Dante, di Leonardo da Vinci, di Michelangelo, di Savonarola. Dei fiorentini, dei toscani, degli italiani, degli americani. Ecco: a me è sembrato stranissimo, che in tutte le 193 pagine di questo libro sulla bellezza non sia riuscito a trovare una frase che mi sembrasse non dico bella, ben fatta”.
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È esattamente ciò che viene in mente di fronte alle poche immagini fin qua rese pubbliche del documentario Firenze secondo me con Renzi che “impalla” il “Tondo Doni” di Michelangelo, snocciolando vieti luoghi comuni sul caratteraccio dell’artista, suggerendo neanche troppo implicitamente che è questo un tratto tipico dei fiorentini, e dunque anche del Fiorentino per eccellenza: lui.
Il discorso su Firenze è un discorso su Renzi, in un trionfo di ombelicale autoreferenzialità. Insomma: vediamo più il narciso che il giglio.
È quello che i fiorentini hanno visto a lungo. Il Renzi che – il giorno in cui firma l’ accordo con Ferrovie per lo sventramento Tav di Firenze – depista l’attenzione dei concittadini lanciando un referendum (è una malattia!) sull’idea di costruire la facciata che Michelangelo aveva progettato per San Lorenzo. Una colossale minchiata (unica parola possibile, me ne scuso), irrealizzabile e demenziale da tutti i punti di vista: che però tiene banco per giorni.
Il Renzi che annuncia di voler ripavimentare in cotto Piazza della Signoria, come nel Rinascimento: la storia ridotta a book in cui scegliere l’ acconciatura preferita. Ma un ottimo modo per non far parlare delle tremende periferie di Firenze, dove se parli di bellezza ti rincorrono col forcone.
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Il Renzi, soprattutto, che costruisce un’intera campagna di comunicazione sulla caccia alla Battaglia di Anghiari, la perduta pittura murale di Leonardo in Palazzo Vecchio. Un’altra solennissima fesseria che lo porta a far trapanare gli affreschi di Giorgio Vasari, e a scontrarsi frontalmente con tutta la comunità scientifica della storia dell’arte mondiale: che egli bolla come un accolita di “professoroni” (siamo già alle prove generali della indovinatissima campagna referendaria).
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In quelle settimane di duelli al vetriolo, Renzi si lascia scappare la verità quando, tuonando contro l’Opificio delle Pietre Dure che resiste alle sue pressioni, dichiara: “Per non capire questa importante azione di marketing per Firenze bisogna essere proprio e ci siamo capiti”. È tutto qua: il punto focale non è la bellezza, ma il marketing. Ma bisognava fare ancora un passo per dirla tutta, la verità: quel marketing, allora come ora, non era per Firenze, ma per Renzi. È in questo decisivo slittamento che passa tutto il disastro di una straordinaria ascesa politica finita nel nulla: perché, nonostante tutto, è ancora evidente la differenza tra chi serve un ideale, e chi, al contrario se ne serve.
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Il Fatto Quotidiano, 17 ottobre 2018

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