La grande illusione dei partiti leggeri

07 Ott 2018

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Un saggio degli americani Frances McCall Rosenbluth e Ian Shapiro Dagli anni Sessanta si è assistito a un processo di democratizzazione che ha caratterizzato non tanto le istituzioni quanto le associazioni della società, per esempio i partiti.

Un processo fatto di primarie e di altre forme di decentramento che ha creato l’ illusione per cui meno organizzazione significasse più democrazia. L’ esito è impietoso: le nostre democrazie hanno prodotto decisioni che forse sono più vicine all’ opinione popolare del momento e hanno consentito la selezione di politici più vicini al sentire popolare e al volere dell’ audience eppure… sono più cesaristiche e i suoi leader meno soggetti al controllo dei cittadini.

I partiti hanno adottato riforme interne (il PD ne è un esempio) con lo scopo appunto di diminuire al massimo l’ organizzazione per essere più vicini agli elettori.

Rovesciando la “legge ferrea dell’ oligarchia” si potrebbe pensare che partiti più liquidi o leggeri significhino partiti più democratici. Ma così non è. A partiti deboli è seguita una più debole democrazia. Questa è la linea guida del libro di Frances McCall Rosenbluth e Ian Shapiro, Responsible Parties: Saving Democracy from Itself (Cambridge University Press).

Combinando un metodo empirico e comparatistico con un metodo teorico, il volume propone diversi casi per dimostrare che partiti forti corrispondono a una democrazia forte, non solo perché più preferenze e interessi hanno in effetti più possibilità di essere rappresentati o avere voce, ma anche nel senso che la stessa partecipazione, elettorale e d’ opinione, ha maggior spazio o uno spazio meno aleatorio. Tra i casi raccolti da Robenbluth e Shapiro vi è anche l’ Italia, che per gli autori ha fallito nel corso degli ultimi anni il progetto di dare un assetto più funzionale al proprio sistema elettorale. E ha fallito, sostengono, anche per la presenza di vari fattori concomitanti: un pluralismo che ha ostacolato decisioni, una frammentazione delle dirigenze dei partiti, la presenza di leader poco saggi e ingombranti.

Al di là delle valutazioni sui singoli paesi e dell’ assunto astratto del modello Westminster come il più stabile (anche se in crisi proprio nel paese che lo ha inaugurato), il tema che questo libro graffiante e controcorrente ci propone è riassumbile in una massima che la vicenda italiana dimostra con disarmante facilità: il partito leggero non è il miglior amico della democrazia. Né lo è il movimento che coltiva l’ illusione di connettere e fare interagire i cittadini per mezzo di piattaforme digitali e senza un’organizzazione.

Il primo è una sicura ricetta per leader autoreferenziali; il secondo crea il potere insindacabile di un piccolo gruppo. In entrambi i casi l’ esito non è più democrazia ma la vulnerabilità della democrazia al potere di minoranze da un lato e del populismo dell’ uomo forte dall’ altro. Se, come sosteneva Robert Michels, l’ organizzazione è l’arma dei molti contro i pochi, «il grande paradosso è che partiti gerarchici sono vitali per una sana democrazia».

La Repubblica, 2 ottobre 2018

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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