Renzi o gli altri, qualcuno nel Pd è di troppo

22 Set 2018

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

A seguire i social, si ha l’impressione che delle cene (elitarie o popolari) proposte, promesse e disdette da alcuni leader Pd interessi ben poco. Le uniche note di commento sono: per recriminare questi “signori sistemati” che poco o nulla sanno di quel che succede fuori; per esprimere un sospiro di sollievo per lo scioglimento di un partito nato gracile; per dire basta, e chiedere che si smetta di parlare di quel che non c’è per dedicarsi a capire che cose può esserci.

Il Pd appartiene al passato. E’ fuori del presente. Quel che nel presente c’è e occupa le pagine dei giornali (più per curiosità da tabloid che altro) è l’opinione dei soliti noti del Pd, che sembra siano la sinistra, che siano il partito, che siano l’opposizione. Fanno tutto questo malissimo eppure hanno solo loro voce rappresentativa. E’ possibile sperare che si facciano da parte? Deve essere possibile. Ma c’è il Congresso. Il quale sembra diventare ogni giorno che passa la zattera di salvezza per tutti. E questa è la condizione peggiore, perché questo congresso post 4 marzo dovrebbe servire a rifondare.

E’ la condizione peggiore perché, appunto, è visto e sarà usato come una zattera: ciascuno dei naufraghi cercherà di occupare il posticino che lo salverà, a costo di buttare a mare il vicino. E resteranno i più scaltri, i più cinici, i più amorali – coloro che riusciranno a far fuori gli altri. Nel mors tua vitamea non si radica alcuna impresa collettiva. E’ come lo stato di natura di Hobbes, dal quale al massimo emergono bande di predoni, che non sono proprio la soluzione alla condizione di massima incertezza e insicurezza. Ecco perché riporre aspettative nel congresso è perdente. Perché non esiste tra i congressisti un progetto comune. Esistono progetti di conquista ed esclusione. E le primarie – altra iattura che ha contribuito a creare guerre intestine senza fine – sanciranno le divisioni, poiché chi vincerà non verrà riconosciuto da chi perde. Le elezioni sono infatti condizioni di pace civile solo se c’è fiducia minima di base tra i contendenti – se si accetta di ubbidire a chi vince, sapendo che non sarà una vittoria assoluta. Ma ci vogliono garanzie per le minoranze, e ci vuole saggezza e leadership nella maggioranza – condizioni che nel PD homo homini lupus non ci sono.

Che fare? Come si può riuscire ad azzerare questo cumulo di errori che si moltiplicano e intensificano con il passare dei giorni? Propongo di riflettere seriamente e senza animosità, ovvero con mente lucida, su due opzioni.

Opzione 1: Matteo Renzi dovrebbe uscire e con i suoi e le sue fedeli costituire un nuovo partito. Personalmente penso alla ragionevolezza di questa opzione da quando Renzi ha conquistato la dirigenza del Pd, ma soprattutto da quando ha cominciato a voler vincere e a perdere per voler vincere (il 4 dicembre 2016). Il suo stile, i suoi contenuti e le sue aspirazioni poco si accordavano con la logica del collettivo alla quale nonostante tutto il Pd si rifaceva, almeno in una sua parte. Un partito liberal-progressista a guida Renzi&Co. avrebbe liberato energie nella zona centrista, e avrebbe tolto il tappo che intrappola le varie energie del Pd. Il quale è stato costretto a subire il dominio di Renzi, anche dopo le sue dimissioni da segretario. Tutto immobile e quindi tutto in veloce cancrena. Non è troppo tardi – se Renzi avesse piglio, coraggio e leadership farebbe il gesto prima; senza prepararsi a fare guerriglia al congresso. Ora riuscirebbe a fare un partito, forse piccolo, ma unito e con una prospettiva futura poiché non è vero che “tutti gli italiani” sono di destra e salviniani. I moderati non hanno a questo punto alcun partito rappresentativo decente. Se Renzi invece andrà a congresso riuscirebbe a fare solo una fazione, e quindi a continuare la guerra civile.

Opzione 2: Resta Renzi e gli altri escono. La prima uscita dal partito era già avvenuta, ma essendo stata sbagliata nei tempi ha prodotto un’uscita fallimentare, una fazione anch’essa; tra l’altro senza alcuna seria volontà di costruire un partito perché comunque fazione del Pd, e quindi con il desiderio di tornare a espugnare la cittadella. L’uscita di LeU in vista di un ritorno, quindi, nella speranza di tornare in un partito diverso. Fallimento. Però, se coloro che non si riconoscono in Renzi&Co. avessero coraggio, lungimiranza e leadership lascerebbero la casa (che comune non è già più) per costruire altrove; costruire daccapo, ma con nuovo entusiasmo, come nelle fasi costitutive. Si avrebbe un’unità di intenti; si avrebbe finalmente la determinazione di buttare a mare quel pessimo e fallimentare Statuto (perché gli editori si rifiutano di stampare il manoscritto di Antonio Floridia, fermo da mesi e che prova quanto quello Statuto sia stato responsabile del “Pd partito spagliato”?). I sentimentalismi sulla casa espropriata da fratellastri e sorellastre sono un poco ridicoli. Qui si tratta non di case di qualcuno ma di un partito, uno strumento per creare consenso e conquistare voti, per vincere una battaglia durissima con un nemico corazzato quale la Lega.

Entrambe queste opzioni rispecchiano una visione molto chiara: il partito è l’anima della democrazia, che senza partiti declina, perché o diventa terra di divisioni e lotte tra minoranze agguerrite non disciplinate, o diventa terra di conquista di caudilli e capipopolo. Partito forte sta insieme a democrazia solida. E chi è convinto del valore della democrazia deve volere un partito forte e efficace, organizzato e con un programma di intenti condiviso. Entrambe le opzioni qui proposte riflettono questa convinzione, per impedire che le fazioni facciano a brandelli quel che resta della possibilità di fare un partito.

 

Huffingtonpost.it, 18 settembre 2018

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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