La vera battaglia è per l’Europa

29 Ago 2018

Roberta De Monticelli Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

“L’Europa è sull’orlo di una drammatica disgregazione, alla quale l’Italia sta dando un pesante contributo, contrario ai suoi stessi interessi”. Anche solo per questa frase, l’appello lanciato da Massimo Cacciari e altre autorevoli figure della cultura italiana dovrebbe essere ascoltato. Ciascuno dovrebbe meditare la sua drammaticità. Ed è quello che Cacciari stesso ci invita a fare in un intervento successivo, invitandoci a comprendere “che l’indifferenza è ormai equivalente a irresponsabilità”, e ad assumere “le iniziative che ritiene più utili per contrastare la deriva in atto”.
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Alla politica – cioè all’opposizione – l’appello chiede una “netta ed evidente discontinuità”, che ponga al centro “una nuova strategia per l’Europa”. Perché tutti coloro che vogliono resistere alla deriva sovranista abbiano la possibilità di non perdere le prossime elezioni europee (23-26 maggio 2019), preparando così il suicidio dell’Unione.

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Credo e spero di andare nel senso di questo appello se mi chiedo: la discontinuità riguarda anche lo spirito con cui si guarda a queste elezioni? Non ci fu niente di più insensibile al vero senso delle elezioni europee che la miope sicumera con cui Matteo Renzi attribuì a se stesso, al suo partito e alla sua politica nazionale l’inusuale consenso del 40% per il Pd nel 2014, come se appunto le elezioni del Parlamento europeo fossero un mezzo per rafforzare il partito e la sua politica nazionale, e non un mezzo per contribuire al compimento di una democrazia e di una politica sovranazionale. Eppure sono state quelle le prime elezioni in cui la coalizione o il partito sovranazionale vincente (il Ppe) ha espresso il presidente della Commissione (Juncker). In cui cioè ha cominciato a incarnarsi nell’istituzione il principio del trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali allo Stato federale, che sarebbe compiuto quando la Commissione fosse veramente divenuta l’esecutivo della Federazione, avocando a sé alcuni cruciali poteri ora caratteristici degli Stati e dei governi, e del loro Consiglio. Altiero Spinelli nel suo Diario europeo 1948-1969 definisce il federalismo “un canone di interpretazione della politica”.

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Non soltanto un criterio d’azione, ma anche di conoscenza. “Tutta l’ opera di Spinelli è espressione dell’esigenza di abbandonare il paradigma nazionale, con il quale la cultura dominante interpreta la realtà politica” (L. Levi, Introduzione a A. Spinelli, La crisi degli Stati nazionali). Come si giustifica questa esigenza? Ognuno dovrebbe ricordare l’incipit del Manifesto di Ventotene: “La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale, che non lo rispettassero”. Ecco come ragiona Spinelli. In termini di interna coerenza del principio universalistico di civiltà definito in tutta la sua radicalità dall’Illuminismo europeo. C’è un momento, pensa Spinelli, in cui questo principio di civiltà urta contro l’organizzazione delle società umane in Stati nazionali: perché tutti, anche quelli democratici, sono minati dalla polarizzazione della società in interessi organizzati “che si precipitano sullo Stato e lo paralizzano quando sono in equilibrio, e ne rafforzano sempre più il carattere dispotico, quando un gruppo o una coalizione di gruppi ha potuto sopraffare l’avversario e prendere il potere”.

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Questa polarizzazione degli interessi organizzati, che Spinelli, sulla scorta dell’economista Lionel Robbins, chiama “sezionalismo”, è la forza che corrode le democrazie: “Oggi lottare per la democrazia significa rendersi anzitutto conto che occorre arrestare questa insensata corsa, non solo italiana, ma europea, verso una società polarizzata in interessi organizzati che si precipitano sullo Stato e lo paralizzano quando sono in equilibrio, e ne rafforzano sempre più il carattere dispotico, quando un gruppo o una coalizione di gruppi ha potuto sopraffare l’avversario e prendere il potere”.

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Questo pensiero sembra attraversare la stagione dei partiti di massa – e da noi della Prima Repubblica – poi volare alto sulla “liquidità” post-ideologica – e da noi sopra il liquame immobile della Seconda Repubblica – fino a fotografare non solo il perdurante ingranaggio delle “macchine d’ affari” partitiche di oggi, ma il dato nuovo e antico: le “forze primordiali” che la norma etica, giuridica, politica è chiamata a controllare. “L’uomo civile è un prodotto complicato e fragile. I più grandiosi frutti della civiltà sono dovuti alla ferrea disciplina che questa impone al selvaggio animo umano, quella disciplina si può spezzare e lasciar emergere le forze primordiali”. È questo pericolo che dobbiamo leggere nello sciagurato linguaggio dei demagoghi che stanno picconando l’Europa civile. È l’alternativa fra civiltà e barbarie.

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Il Fatto Quotidiano, 28 agosto 2018 

Nata a Pavia il 2 aprile 1952, è una filosofa italiana. Ha studiato alla Normale di Pisa, dove si è laureata nel 1976 con una tesi su Edmund Husserl.

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