Invasioni

23 Ago 2018

La materia di ricerca di Toni Ricciardi, le migrazioni, ha ormai assunto una centralità interdisciplinare e nel dibattito pubblico forse (e forse anche per questo) raramente preconizzata fino a pochi anni fa, all’epoca d’inizio degli studi del giovane professore. Oggi c’è chi ritiene che, se in un futuro remoto nei libri di storia scolastici figurerà questo scampolo di XXI secolo, sarà proprio per ricordare i suoi grandi movimenti migratori. Eppure, ci dice Ricciardi, le migrazioni sono sempre esistite, sempre sono state raccontate e, per motivi diversi, quasi sempre in modo travisato e fuorviante. Ricorda ad esempio quando, subito dopo la fine dell’ultima guerra mondiale, « la Società delle Nazioni si rimise in piedi (come “Nazioni Unite”), stabilendo il criterio degli accordi bilaterali: fu questo l’inizio della stagione che vide protagonista l’Italia come serbatoio d’emigrazione di manodopera verso mittel- e nord-Europa. Però questa migrazione fu almeno in parte presa in carico ed inquadrata dal punto di vista legislativo: oggi il tempo è cambiato e diventerebbe complicato spiegare alle opinioni pubbliche europee come e perché siglare un accordo con, ad esempio, un paese subsahariano, per massiccia (parliamo in termini di centinaia di migliaia) necessità di migranti. »

Nel travisamento della narrazione dei movimenti migratori, quanto pesa il fatto che (forse a differenza del passato) manca la voce dei paesi di emigrazione?

 « Non è tanto questo. È invece un dato di fatto che nei paesi di accoglienza sussista da tempo una narrazione contro la migrazione. Negli Stati Uniti, il primo paese insieme alla Svizzera a costruire un’intelaiatura normativa di blocco o (se vogliamo) disciplina dei flussi migratori, vediamo il fiorire negli anni ’10 e ’20 del XX secolo di una serie di vignette che parlano di “invasione europea”. Si tratta quindi di una versione ricorrente e che, tra l’altro, corrisponde ogni volta ad un’anticipazione di momenti di profonda crisi. Storicamente, ad ogni decisione degli Stati in senso di chiusura e di protezionismo (magari seguendo o cavalcando l’onda di malumori o paura nei confronti dei migranti) sono seguite crisi economiche spaventose. Del 1921-24 è il Quota Act degli Stati Uniti, nel 1929 crolla la borsa di New York. A partire dalla fine degli anni ’60 si inizia a ridiscutere l’impiego in nord-Europa dei migranti meridionali e, guarda caso, ci saranno le crisi petrolifere. Insomma, io non dico che ci sia stretta consequenzialità, ma quantomeno contrapporrei, alla visione di Orban, una riflessione che provi a tener conto degli eventuali insegnamenti della Storia. »

In questo senso capisco anche la frase che campeggia sul suo sito personale (www.toniricciardi.it) : “la storia delle migrazioni è una storia globale”.

 « Sì, “una storia globale” spesso sottaciuta o declinata in maniera errata e che meriterebbe una ri-gerarchizzazione tra i temi della Storia. Se noi prendessimo la narrazione della storia delle migrazioni come una bussola orientativa delle grandi storie nazionali e internazionali, potremmo in parte riscriverle. Un esempio per tutti: l’Italia viene descritta fino alla metà degli anni ’50 come un paese in ginocchio, uscito stremato dalla guerra, penalizzato dai trattati di pace. E il cinema di quei tempi, col Neorealismo, ne offre una rappresentazione plastica. Già nel 1960 una “cartolina” diversa: il bagno di Anita Ekberg nella Fontana di Trevi. “La dolce vita”: la rappresentazione dirompente di un paese (ripeto: fino a poco prima in ginocchio e in presenza di una ripresa dei flussi migratori senza precedenti) ormai divenuto la settima potenza mondiale, che sta ripartendo, si sta industrializzando, si sta americanizzando, in corsa verso la società dei consumi. Il triangolo industriale, la 500, la Vespa, i frigoriferi, nel ’54 la RAI… Ma nel mentre milioni di Italiane ed Italiani – e non solo dal sud (narrazione, anche questa, falsata) ma più in generale dalla provincia – continuano ad emigrare. E le rimesse di quella emigrazione finanziano il boom economico italiano più del Piano Marshall. Naturalmente poi diventa difficile nella narrazione pubblica, nell’uso pubblico della Storia, dire che quegli anni di boom economico non sono figli esclusivamente dell’inventiva italiana, ma anche di quel processo di emigrazione che ha attraversato tutta la nostra penisola in modo così determinante. »

L’editore Donzelli ha di recente pubblicato il suo “Breve storia dell’emigrazione italiana in Svizzera. Dall’esodo di massa alle nuove mobilità (2018)”. Concentriamoci sui primi anni: vede similitudini tra gli Italiani di allora in Svizzera e i cosiddetti “migranti economici” di oggi verso l’Italia?

 « Sì, le vedo. Mi viene in mente ad esempio quella pubblicistica che, all’epoca cosiddetta “dei grandi trafori” alpini, a cavallo tra XIX e XX secolo, racconta la condizione in Svizzera delle baraccopoli degli Italiani, in particolare nel Vallese (per il traforo del Sempione), nei villaggi presso Briga dove si viveva accampati in tende, case di fortuna, eccetera. Il problema vero però, al di là di questi argomenti “comparativi”, è sempre lo stesso: accanirsi contro i migranti economici è un modo per nascondere l’incapacità dei governanti dei paesi d’accoglienza di gestire i flussi migratori. C’è sempre una forma profonda di cinismo nell’analisi: il sistema economico è consapevole che ha bisogno dell’immigrazione, ma la narrazione pubblica ha difficoltà ad ammetterlo. Diventa difficile specialmente nei momenti di crisi, ieri come oggi: tornando all’epoca dei grandi trafori elvetici, si tratta in realtà di un periodo in cui ancora era forte l’emigrazione anche dalla Svizzera e soprattutto proprio da quei cantoni (il Ticino e il Vallese) interessati dalle grandi opere pubbliche. È la contraddizione della Svizzera di quei decenni: da lì continuavano a emigrare per mezzo mondo, toccando l’apice a fine ‘800, e nello stesso tempo arrivava la migrazione nuova, gli “altri”. E già all’epoca parte dell’opinione pubblica discuteva degli spazi lasciati vuoti in Svizzera ed occupati dagli stranieri. »

È molto interessante questo se lo mettiamo in relazione con l’Italia di oggi: un articolo di giugno de il Post evidenzia alcuni dati che possiamo accostare a quelli dei flussi in uscita dal nostro paese. La popolazione straniera regolare in Italia ammonterebbe a circa l’8% del totale (compresi i nati in Europa), la stessa percentuale della sola popolazione italiana nella Svizzera francofona (sono 130’000 gli Italiani su 1’600’000 abitanti e senza contare i frontalieri che vi lavorano pur risiedendo in Francia). Nell’ultimo anno circa 2’000 Italiani si sono iscritti all’anagrafe dei residenti nei 3 cantoni che compongono la circoscrizione consolare di Ginevra. Un numero importante, ma che nella sola Londra è stato raggiunto, nello stesso periodo, ogni mese. Ecco la domanda dunque: immigrazione ed emigrazione sono due facce dello stesso problema? Perché in Italia ci occupiamo tanto della prima e in proporzione così poco della seconda?

 « Molti temi sul fuoco: facciamo ordine. Iniziamo intanto col dire che i dati citati sull’emigrazione sono, ovviamente, rilevazioni al ribasso (e nettamente!): le cifre reali sono almeno il 30-40% più alte, soprattutto oggi e nello spazio regolato (finché reggerà) da Schengen ed accordi bilaterali, come nel caso della Svizzera. È dal 1986 che è obbligatorio iscriversi all’ AIRE [Anagrafe Italiana Residenti all’Estero, ndr] entro un anno di permanenza all’estero, ma di fatto molti provvedono dopo due, tre, quattro anni, o magari in corrispondenza delle elezioni politiche.

Puntualizzato questo, vediamo ora: perché ci si occupa tanto dell’immigrazione e così poco dell’emigrazione? Beh, perché il contrario implicherebbe un’ammissione di colpa. Si può raccontare in molti modi la mobilità e anche noi abbiamo vissuto una stagione – grosso modo quella della costruzione dell’Unione Europea come la conosciamo oggi e quindi a partire dalla metà degli anni ’90 – che ha portato alla “generazione Erasmus”, alla mobilità come aspetto positivo, scambio di idee, acquisizione di know how all’estero per una sua successiva introduzione nel paese di partenza. La difficoltà di tornare ad occuparsi di questi temi risiede nel fatto che l’Italia non si sta dimostrando e non si è dimostrata in grado di riattrarre poi queste persone nel proprio contesto nazionale. »

Parliamone allora, di emigrazione italiana: che cos’è cambiato, soprattutto, tra la migrazione di fine ‘800, oppure del primo dopoguerra, e quella odierna?

 « È l’Italia che è cambiata. L’Italia nel 1950 era un paese con un profilo demografico paragonabile a quello della Turchia, dell’Albania o della Tunisia di oggi: età media 30 anni. A distanza di 60 anni l’Italia è il secondo paese più anziano del mondo dopo il Giappone e in prospettiva, nel 2050 o 2075 (a seconda delle analisi), si candida ad essere il paese più anziano del mondo, con pezzi del proprio territorio notoriamente tra i più popolosi (in particolare nel Mezzogiorno) che avranno vissuto una regressione demografica. È storia dell’umanità a tutte le latitudini (e anche in Svizzera): “l’altro” viene sempre utilizzato come il creatore dei problemi. Se una nazionalità estranea è molto presente, viene additata come responsabile di togliere opportunità alla popolazione locale: senza quella presenza, la popolazione residente vivrebbe meglio, avrebbe più opportunità e meno concorrenza sul mercato del lavoro, eccetera. Sostenere quest’idiozia corrisponde a nascondere la polvere sotto il tappeto. Almeno fin quando questa polvere sarà talmente tanta che non si potrà non sbatterlo, il tappeto, vedendola venire alla luce tutta insieme. »

Ginevra, la sua città, è straniera per più di metà dei suoi abitanti, e molti degli altri sono comunque figli o nipoti di immigrati. Qualitativamente si tratta di situazioni incomparabili o esiste una lezione politica di integrazione che possiamo mutuare in Italia per le nostre immigrazioni?

 « Bisogna fare alcune premesse di fondo. La prima: il contesto territoriale nazionale è quasi incomparabile, nel senso che la Svizzera è sì demograficamente raddoppiata dal dopoguerra (fino agli attuali 8milioni e mezzo di abitanti), ma resta comunque 41mila kmq, cioè l’equivalente di un paio di regioni italiane. Questo è un aspetto di non poco conto quando si parla di immigrazione, perché a dimensioni maggiori corrispondono maggiori difficoltà di gestione. Non si può prescindere poi da un distinguo sui corsi storici, ovviamente diversi. Detto questo, in linea generale, certo che si può imparare, ma solo se si ha il coraggio di utilizzare le narrazioni giuste: la Svizzera (come dicevo prima) è il paese, con gli Stati Uniti, che si è dotato prima di tutti gli altri di un’intelaiatura normativa dedicata, che cioè si è posto il problema della gestione del processo migratorio. Nel 1917 istituiva la polizia degli stranieri, negli anni ’30 già si era dotata di una legge sui temi migratori e poi ha immaginato di utilizzare la manodopera straniera nel contesto della temporaneità (con contratti appositi quali quelli “stagionali”), per poi rendersi conto, a partire dagli anni ’70 e per i decenni successivi, che a quello che si credeva un processo provvisorio è poi seguita una stanzialità. Ora, perché conoscere questa storia svizzera può essere utile in Italia? Perché la Svizzera, che in vari momenti del proprio cammino ha dato segni di invecchiamento della propria popolazione, oggi non è un paese in sofferenza demografica e proprio grazie alla migrazione. La sua vicenda può insegnare molto perché è un paese che, più di altri, è tale proprio grazie all’immigrazione. Più anche degli Stati Uniti (che è il paese migratorio per eccellenza). Può insegnare molto perché ad un certo punto ha avuto consapevolezza dell’immigrazione come conditio sine qua non per la tenuta e la crescita del paese. Non bisogna nascondersi, allo stesso tempo, le molte contraddizioni ed anche le spinte xenofobe che hanno punteggiato questo percorso e che ancora oggi sono costantemente dietro l’angolo. Però ripeto: fatta salva la premessa di un contesto geografico, territoriale, demografico, storico totalmente diverso rispetto all’Italia, qualche lezione preziosa si può sicuramente imparare. Una, per chiudere: in Italia, nella scorsa legislatura, era stata avanzata una proposta di naturalizzazione che, erroneamente ed in maniera sciocca, era stata definita “ius soli”. Un errore di narrazione, per la proposta di un processo di acquisizione della cittadinanza italiana nella pratica leggermente più restrittivo rispetto a quello di naturalizzazione già previsto in Svizzera. Ma anche qui: l’incapacità di narrare quella proposta ha portato ad accantonarla per paura delle reazioni in una parte della popolazione. »

Di nuovo la narrazione (delle soluzioni prospettate, in questo caso) che diventa fondamentale nella gestione del problema.

 « Certo: se una rivoluzione epocale, paragonabile alla seconda industriale, c’è stata nei nostri tempi, è quella della digitalizzazione, del cambio del paradigma nelle comunicazioni. E quando c’è una rivoluzione, un cambiamento così forte, questo non può non creare dei contraccolpi. Noi viviamo un’epoca che non è quella dell’analisi dei fatti, ma dell’emozionalità, col mondo dei social a rappresentarne l’emblema. Non che l’emozionalità non giocasse un ruolo nelle epoche storiche passate, ma mai in modo così pervasivo e determinante. Ogni azione, sia essa di governo, giuridica o legislativa, è molto influenzata dalle percezioni. E quando la politica diventa analisi delle percezioni e non dei fatti concreti, è chiaro che lascia campo fertile alla xenofobia e alle paure. »

Un discorso molto ampio e importante, valido anche per i flussi migratori.

 « È un dato di fatto. La storia non si ripete mai, però molte volte si assomiglia e il non coltivare la memoria ci porta a dimenticare che qualche errore in passato l’abbiamo commesso e forse potremmo adoperarci per evitarlo in futuro. Bisognerebbe avere il coraggio di contrapporre a una narrazione populista, xenofoba e molto “facile”, una contro-narrazione che dimostri scientificamente, giorno per giorno, che la migrazione è non solo inevitabile, ma soprattutto strumento di crescita e progresso della civiltà umana. Perché non esistono le civiltà nazionali, esiste la civiltà umana. »

 (*) Toni Ricciardi è storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra, membro della Facoltà di “Sciences de la Société”. Tra i coautori del “Rapporto italiani nel mondo” della Fondazione Migrantes, del primo Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo (Ser, 2014) e membro del comitato editoriale di “Studi Emigrazione”, ha scritto, tra l’altro, “Associazionismo ed emigrazione. Storia delle Colonie Libere e degli Italiani in Svizzera” (Laterza, 2013) e “L’imperialismo europeo” (Corriere della Sera, 2016). Per Donzelli ha pubblicato “Morire a Mattmark. L’ultima tragedia dell’emigrazione italiana” (2015, Premio “La valigia di cartone 2015”), “Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone” (2016) e recentemente “Breve storia dell’emigrazione italiana in Svizzera. Dall’esodo di massa alle nuove mobilità” (2018).

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