Ci vuole orecchio per battere Salvini

01 Ago 2018

Tomaso Montanari

Caro direttore, Roberto Saviano ha invitato a rompere il silenzio sulla politica e la retorica sostanzialmente fasciste di Matteo Salvini. Ho dedicato un piccolo libro (“Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’ Italia senza verità”, Edizioni del Gruppo Abele) al dovere di – sono parole di Bobbio – non lasciare il monopolio della verità a chi ha già il monopolio della forza: e lì ho indicato proprio in Saviano uno dei non molti intellettuali liberi, e disposti a schierarsi. Su Salvini, poi, ho preso la parola in ogni sede: scrivendo, tra l’altro, la prefazione al libro che Antonello Caporale e Paper First hanno dedicato al “ministro della paura”.

Ma rompere il silenzio non basta. Racconta Emilio Lussu di un comizio in cui, quando un ascoltatore reclamò: “voce!”, si sentì rispondere: “orecchio!”. Per battere questa destra orrenda serve più orecchio che voce. Ci vuole ascolto, per capire perché (oltre al tessuto ricco, e talvolta razzista, del Nord che da anni si riconosce nel potere della Lega) anche i poveri, gli ultimi, gli “scartati” (come li chiama papa Francesco) hanno votato in massa per le forze che si sono saldate in questo governo. E perché, nonostante tutto, continuano a sostenerle.

Se non lo capiamo, rischiamo di maledire un sintomo (Salvini) senza curare la malattia. È un problema di credibilità, certo: nessuna voce contro Salvini è sincera se non ha detto, o non dice, che Marco Minniti ha fatto di peggio, anche se lontano dalle telecamere. O se non dice che il Dario Nardella che si fa riprendere mentre spiana con le ruspe un campo rom a Firenze è un sintomo della stessa malattia. E così via. Ma c’ è qualcosa di terribilmente più profondo. Come si fa a chiedere agli italiani sommersi e sfruttati di stringersi intorno ai valori della Costituzione proprio mentre Sergio Mattarella, massimo garante della Carta e del suo primo articolo, si genuflette di fronte a un Sergio Marchionne? Questi è stato un formidabile campione della anti-costituzione materiale per cui lavoro e diritti non sono compatibili: se vuoi il primo, devi rinunciare ai secondi. Come si fa a non vedere che tra la canonizzazione di Marchionne e il consenso a Salvini c’è un nesso strettissimo?

Come possiamo pensare che gli italiani in difficoltà ascoltino i nostri appelli antifascisti se essi sono sostenuti dallo stesso establishment che esalta Marchionne, il quale non ha voluto restituire all’Italia, e a ciò che resta del suo stato sociale, nemmeno i soldi delle tasse sul proprio gigantesco patrimonio? Come sperare che vengano ascoltati giornali e partiti nei quali Marchionne è esaltato come un super-uomo, in vita e in morte lontano anni luce dai sotto-uomini che muoiono sul lavoro, il corpo oscenamente sfranto in pubblico, o affogano aggrappati al relitto di una barca, sotto l’occhio delle telecamere?
Tutto l’establishment che chiama al conflitto contro Salvini è quello che diceva e dice che non è possibile alcun conflitto sociale: che è invece lo strumento per creare giustizia sociale, ed è stato disinnescato proprio dal Partito Democratico e dai suoi sostenitori.

Quando Salvini dice “prima gli italiani”, nessuna risposta è credibile se non afferma la necessità di un conflitto invece “tra gli italiani”: tra i poveri e i ricchi, che “non vogliono le stesse cose” (Tony Judt).
Alla sinistra dei politici, professori, giornalisti paghi di appartenere alla ristretta cerchia dei salvati, disinteressati a cambiare il mondo e capaci solo di parlare di “austerità” e “responsabilità”, è subentrata una destra con una visione terribile e propagandistica, sanguinosa e fasulla. Salvini sa benissimo che non potrà cambiare in meglio la vita degli italiani: ed è per questo che accende la miccia della caccia al nero.

Ma nessuna risposta capace di erodere questo disperato consenso può fermarsi alla proclamazione delle ragioni dell’umanità.
Carlo Smuraglia ha di recente ricordato che “ben pochi giovani sarebbero stati disposti a prendere le armi e a cacciare i fascisti solo per tornare allo Statuto albertino: quello in cui il sovrano concedeva, di sua iniziativa, i diritti al popolo”. Ebbene, davvero pensiamo di convincere gli italiani a una nuova (e ovviamente diversa) resistenza, solo per tornare all’Italia del Pd (e che sia il Pd di Renzi o Zingaretti davvero poco cambia), dell’inutile e distruttivo Tav, del Jobs Act, e di tutto il resto?
Bisogna saper vedere, e saper dire, che Salvini è il sintomo terribile, e finale, della malattia che ha devastato questo Paese anche “grazie” a ciò che chiamavamo “sinistra”. Bisogna saper indicare un’altra strada per costruire giustizia, eguaglianza, inclusione.

Rompiamo il silenzio con tutta la forza che abbiamo, d’accordo: ma, per capire cosa davvero dobbiamo dire, bisogna prima saper ascoltare il Paese. Mai come oggi “ci vuole orecchio”.

 

Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2018

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