Copyright delle mie brame

12 Lug 2018

Vincenzo Vita

Il testo della direttiva europea sul copyright ha avuto una secca battuta d’arresto. Nell’assemblea plenaria di Strasburgo a maggioranza è stato rinviato il formale passaggio del testo al Consiglio, atto propedeutico al proseguimento dell’iter parlamentare verso la decisione. Rinvio a settembre. Ma chissà.

Nel clima dell’imminente scadenza elettorale è difficile che possa vedere la luce una normativa complessa, per di più stremata dalle polemiche animate dalle opposte tifoserie. Gli editori da una parte e i grandi aggregatori di dati dall’altra.

I primi suppongono di attenuare la crisi storica della carta stampata rivalendosi -facendosi pagare- sui link che sunteggiano gli articoli. Peccato che proprio le leggi elementari del mercato chiederebbero di invogliare alla lettura, piuttosto che limitarla a settori privilegiati. Il giornale analogico va trainato, non ostacolato dalla versione digitale. Due soldi subito e il baratro domani o un investimento strategico sulla lettura? Questo è il problema.

Gli Over The Top (da Google a Facebook) conducono -storpiandola a loro uso e consumo- la lotta sacrosanta per la libertà della circolazione dei saperi. Quest’ultima è la storica parola d’ordine dello schieramento dei mediattivisti democratici, capaci di distinguere tra la sacralità del lavoro culturale e il carattere transeunte della proprietà intellettuale: che ha avuto un inizio, un periodo di gloria e vive ora un inesorabile viale del tramonto. Le condizioni tecniche della circolazione della conoscenza sono talmente rivoluzionate, da omologare i vecchi sistemi di calcolo del valore e del profitto ai gloriosi film in bianco e nero.

Gli scritti di un nume tutelare in materia, il giurista statunitense Lessig, sono utili per inquadrare la vicenda. Così come non è affatto secondario che pressoché all’unanimità i grandi nomi della storia di Internet abbiano alzato la voce invocando un ripensamento. Lo stop europeo è venuto dopo una tirata approvazione lo scorso 20 giugno di brutti emendamenti in seno alla commissione giuridica. L’articolo 11 è stato appesantito con la cosiddetta “link tax”, ovvero il pagamento dei testi pur brevissimi di “strillo”, per semplificare.

Peggio che mai l’articolo 13, in cui fu introdotta la possibilità di agire l’upload filter, il filtro sui contenuti. Basta la parola. Tra l’altro, poste così le questioni, si sa da dove si parte, ma non dove si va: l’esito può essere foriero di sorprese censorie, persino oltre le intenzioni.

Del resto, viviamo una stagione difficile per la libertà di espressione e il contesto di riferimento è decisivo. E’ utile chiarire che anche per il copyright vale la regola aurea del clima d’opinione diffuso in cui si colloca la discussione. In un coerente e condiviso contorno da stato di diritto è una cosa, in un mondo reale lasciato nelle mani sguaiate dei potenti tutto si colora diversamente. Gli stessi che nei giorni scorsi hanno difeso la proposta di direttiva perché difenderebbe testate e giornalisti forse non si sono resi conto di guardare il dito e non la luna.

Nell’era digitale le antiche trincee del diritto d’autore sono travolte e, senza una visione, le voci libere soccombono di fronte alle concentrazioni editoriali  che puntano sui pubblici abbienti, dotati di elevate capacità di spesa. Certamente non basta il “no” trasversale che si è espresso a Strasburgo, nè sono sufficienti le pur comprensibili esortazioni di Wikipedia.

È indispensabile condurre una battaglia su due fronti: contro i privilegi antiquati, ma pure contro il cannibalismo degli oligarchi della rete. I quali devono, per essere credibili nello schieramento libertario, rendere trasparenti i loro algoritmi, il latinorum della società digitale. Se riprenderà il percorso parlamentare, lì sta il nodo è lì, forse, è persino lecito un compromesso. Lo stesso governo italiano, durissimo contro la direttiva, ha il dovere verso i cittadini utenti della rete di rendere nota la sua strategia sull’intero campo.

 

il manifesto, 4 luglio 2018

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