Una nuova stagione di guerra alle mafie?

20 Giu 2018

“Contrasteremo con ogni mezzo le mafie, aggredendo le loro finanze e la loro economia”. Nel chiedere la fiducia al Senato, con tono perentorio, il premier Giuseppe Conte annuncia una della sfide del nuovo governo. Simbolicamente è un passo avanti dopo il ‘silenzio’ di tanti partiti in campagna elettorale; nonostante i clan siano ancora una zavorra per l’economia, i diritti e la democrazia.

Tuttavia si poteva dire qualcosa in più sul come coltivare certi intenti. Le otto righe che il “contratto di governo” dedica al tema non paiono svelare programmi ambiziosi. Gli spunti su “scambio politico-mafioso” e confisca, tutti da “vestire”, evocano istituti noti da tempo. L’auspicio è che, prima di tutto, ci si interroghi sull’idoneità delle attuali risorse normative e istituzionali a fronteggiare anche la nuova vocazione “mercatista” e transnazionale dei clan. Il sistema di contrasto vigente è stato pensato per una mafia ‘predatoria’. Sul tipo Cosa Nostra anni 80. Una potente struttura d’ordine radicata sul territorio.

Che, grazie a un predominio ambientale fondato sull’intimidazione, taglieggia e condiziona imprese e commerci. E, con lo stesso metodo, offre ai politici sostegno elettorale in cambio di una compartecipazione nella spartizione del denaro pubblico (appalti) e protezione per i rischi giudiziari. Su questa realtà, nel 1982, è sorto un sistema di leggi speciali che si è perfezionato col tempo. Al centro sta il reato di associazione mafiosa (416 bis), la cui contestazione: giustifica regole ad hoc su intercettazioni, agenti sotto copertura, premi di collaborazione; attiva strutture investigativo-giudiziarie dedicate (Dia, Dda, Pna); dà ampi poteri di confisca dei patrimoni conquistati con la violenza. Ancora in molte realtà del Sud, a Ostia o in enclavi calabresi dell’Emilia quelle leggi si mostrano efficaci.

Lo sono meno verso élite mafiose che hanno cambiato strategia, anche per l’impoverimento delle aree di provenienza e la contrazione della spesa pubblica. Coi patrimoni accumulati fanno affari senza intimidazioni, delocalizzando le loro attività. Secondo recenti indagini nel Nord Italia, sono le imprese locali “a chiedere” beni e servizi ai clan per abbattere i costi di un mercato sempre più competitivo. Ad esempio nello smaltimento di rifiuti o nella produzione manifatturiera. I boss, in questi casi, aderiscono a cricche in cui mondi diversi mettono in comune risorse politiche ed economiche. Si tratta di alleanze di interessi. Non c’è bisogno di esteriorizzare il metodo intimidatorio della “casa madre”, dato essenziale del reato di 416 bis.

Tanto che la Cassazione si è rivelata oscillante nell’applicarlo alla cosiddetta “mafia silente” del Nord. Per i clan in trasferta c’è, dunque, un problema di obsolescenza dell’attuale 416 bis. Con il pericolo di inutilizzabilità di tutte le misure a esso collegate (“doppio binario”). Lo rilevano, da tempo, non solo diversi magistrati e poliziotti, ma anche professori di Diritto e criminologi.
Sono allarmi che suggeriscono una rimodulazione del reato di 416 bis o interpretazioni adeguatrici. Oltre al metodo violento, la norma dovrebbe valorizzare la capacità dei clan di fare network, combinando l’uso spregiudicato delle potestà amministrative con disinvolte iniziative imprenditoriali, tramite corruzione, riciclaggio, evasione fiscale.

Per questo, a legislazione invariata, è una priorità distribuire le eccellenze investigative su criminalità economica e nelle pubbliche amministrazioni anche in aree di non tradizionale radicamento mafioso. Oggi si è più vulnerabili ai clan laddove mancano poliziotti e magistrati esperti. E, in certe materie, non sono tanti in circolazione.

Ma le nostre mafie vanno anche stanate oltre i confini nazionali. Non solo per i traffici di droga e di esseri umani, per loro assai lucrosi. Un rapporto Europol del 2017 parla di boss italiani che ormai investono nell’economia legale dei Paesi europei, soprattutto nei settori finanziario e immobiliare. Eppure si avverte un disinteresse diffuso della politica sulla adesione dell’Italia alla Procura Europea (Eppo), che sarà operativa dal 2021. Non è un buon segnale se si pensa che la novità dovrà rafforzare la cooperazione giudiziaria tra diversi Paesi, per colpire meglio i reati utili alla mafia mercatista e ai suoi complici: frodi fiscali, falsi in bilancio, corruzione, riciclaggio.

Per impedire che l’economia liberale sia inquinata da quella criminale, con gravi danni per la società, non bastano le illusioni degli slogan né gli inasprimenti di pena per qualche reato (peraltro già molto rigorose con associati mafiosi, concorrenti esterni e complici, compresi i politici). Vanno piuttosto aggiornate alleanze internazionali, analisi dei fenomeni e pensiero giuridico. Una nuova frontiera, quindi, che richiede investimenti nelle migliori risorse istituzionali, professionali e culturali del Paese. E determinazione a misurarsi con nemici insospettabili.

Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2018

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