Governo a gestione privata, ma Mattarella non è un notaio

08 Giu 2018

Il pericolo sembra sventato, ma il precedente rimane. Per quarantotto ore una normale crisi di governo ha assunto i lineamenti di una rischiosa crisi istituzionale. Motivo scatenante il rifiuto del presidente Mattarella di firmare il decreto di nomina di un ministro proposto dal presidente del consiglio incaricato. Il nuovo governo non si è pertanto potuto formare nonostante il sostegno di forze politiche che riflettevano una maggioranza parlamentare.
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La reazione immediata e scomposta dei partiti non si è fatta attendere: non solo convocando manifestazioni di protesta contro il garante della costituzione e preannunciando una campagna elettorale caratterizzata dalla parola d’ordine “il popolo contro il Palazzo” (in chiave, dunque, sostanzialmente eversiva), ma si è persino giunti a proporre la messa in stato d’accusa per alto tradimento o attentato alla costituzione del capo dello Stato. La “tragedia” s’ è poi rapidamente trasformata in “farsa”: quando due giorni dopo il presunto “colpo distato” tutto s’ è ricomposto e il governo è stato nominato con soddisfazione di tutti i protagonisti. Sorrisi e strette di mano, parole di elogio, riconoscimento di avere operato con saggezza ed equilibrio hanno sostituito le contumelie rivolte al mite presidente della Repubblica italiana.
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Per alcuni s’è trattato di un fuoco di paglia, classica espressione del folclore italico. Una burletta, in sostanza, che ha segnato però un passaggio d’epoca, verso il “governo del cambiamento”.
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Se, in effetti, non può sottovalutarsi la cesura che i nuovi equilibri politici stanno producendo, con la crisi (definitiva?) delle logiche orizzontali (destra – sinistra) e l’affermarsi di un diverso schema contrappositivo (alto – basso), non per questo può ridursi il significato del passaggio istituzionale richiamato. Anzi proprio questo repentino inabissarsi negli inferi della crisi e sua improvvisa celestiale risoluzione può farci comprendere quale sia l’assetto istituzionale verso cui tendono i nuovi rapporti di potere.
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Ma per cogliere il mutamento dobbiamo alzare lo sguardo per prendere in considerazione ciò che è avvenuto prima e che spiega persino lo “scandaloso” atto di diniego di Mattarella e la successiva repentina ricomposizione. Noi giuristi siamo abituati a valutare essenzialmente gli atti formali, ma proprio questo ci porta spesso a sottovalutare i fatti reali. Com’è successo in questo caso, dove l’unica preoccupazione è parsa quella di definire i limiti del potere presidenziale di nomina dei ministri. Eppure dovremmo sapere che i poteri del presidente della Repubblica sono flessibili, dovendo garantire gli equilibri costituzionali. Essi si espandono nei momenti di crisi per poi doversi ritrarre. Proprio se si vuole conservare un ruolo di potere neutro (che non vuol dire inerme) al capo dello Stato, rappresentante dell’unità nazionale e organo di intermediazione politica, si devono giudicare i poteri (e gli atti conseguenti) alla luce della funzione di garanzia politica che gli è stata affidata dalla Costituzione e non viceversa. Ciò rende necessariamente articolato il giudizio sull’operato presidenziale che va valutata entro il contesto dato.
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Se si ragiona allora sul contesto entro cui s’è svolto l’iter di formazione del nuovo esecutivo ci si avvede dei veri e profondi strappi che la “piccola” crisi (quella di governo) ha prodotto sulla “grande” crisi (quella costituzionale). Almeno due i fenomeni rilevanti: da un lato si è assistito a una “privatizzazione” dell’ organo governo, dall’altro si sono squilibrati i rapporti tra forze politiche e presidenza della Repubblica.
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Pochi si sono lamentati della gestione del tutto privata della crisi, sottovalutandone la portata sostanziale. Il programma di governo trasformato in un contratto tra due signori stipulato dinanzi ad un notaio, le cui obbligazioni sono assolte da un loro fiduciario. Nessun ruolo è dato alle istituzioni ed ai soggetti in essi operanti. Nessuna consultazione con i gruppi parlamentari, che si dovranno limitare a registrare la volontà dei capi; nessun coinvolgimento (se non ex post) con chi- nella veste di presidente del consiglio – dovrà essere responsabile del contratto una volta tradotto in programma politico. Persino le esternazioni di un ministro su questioni di competenza del proprio dicastero- e dunque secondo costituzione di cui è pienamente responsabile – sono poste nel nulla da uno dei due soggetti contraenti (è Salvini ad avere affermato che le opinioni del ministro della famiglia sulle coppie omosessuali non avevano rilievo alcuno, «non facendo parte del contratto»): come se fosse una questione privata.
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L’esautorazione del governo, ma anche del parlamento è alle porte. Tant’è che i conflitti politici che dovessero sorgere in futuro si prevede che non vadano più risolti nelle sedi politiche proprie (consiglio dei ministri e parlamento, appunto), ma da un comitato di conciliazione: ancora una volta un organo privato dove dominano i due soggetti contraenti. Nel silenzio dei più – anche della presidenza della Repubblica – con questa crisi di governo si è evidentemente voluto dare ragione a chi aveva sostenuto in passato che «il governo moderno non è altro che un comitato amministrativo degli affari». Neppure della “classe borghese”, come ritenevano Marx ed Engels, ma solo dei due soggetti contraenti.
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Una gestione privata della crisi che ha indotto a non considerare più valide le prassi e i precedenti che da sempre hanno sorretto i rapporti tra soggetti politici e il garante degli equilibri costituzionali. La riservatezza e la leale collaborazione sono le regole non scritte che hanno permesso al capo dello Stato di svolgere la sua opera di risolutore degli stati di crisi.
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Colloqui, esplorazioni e contatti preventivi sono stati alla base del potere di nomina del governo nei sessantaquattro casi precedenti. È in tal modo che s’è permesso al presidente di esercitare il suo ruolo istituzionale. Ora, per il sessantacinquesimo governo della Repubblica i contraenti privati hanno ritenuto di poter fare a meno della sua mediazione per risolvere “tra loro” tutte le questioni politicamente controverse. Finita la contrattazione privata, individuato il rappresentante di fiducia delle parti da porre a capo del comitato d’affari, indicati gli altri amministratori delegati, reso pubblico il tutto, s’è passati dal notaio per la stipula. S’è solo sbagliato indirizzo: il Quirinale non è iscritto all’ordine.
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A questo punto il Colle ha reagito, commettendo un fallo di reazione. È vero non doveva porre il veto ad un ministro per ragioni legate all’ indirizzo politico (ne abbiamo già scritto), forse però doveva intervenire prima ricordando alle forze politiche che il governo non è un affare privato, ma un organo dello Stato. Alla fine sembra che Mattarella abbia compreso il suo errore. Può dirsi altrettanto per gli altri? Basterà aspettare poco per capire.
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il manifesto, 6 giugno 2018

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