Comprendere il populismo per batterlo

Comprendere il populismo per batterlo

Nell’intervista rilasciata a Repubblica, Maurizio Martina afferma: “Di fronte alla nascita del governo più a destra della storia recente, è giusto dirsi che non basteranno gli anatemi: dobbiamo costruire un’alternativa popolare alla saldatura tra Lega e M5S superando le divisioni del passato, allargando ad energie nuove, ribadendo il nostro ruolo da protagonisti nel campo progressista”. Sono ottime e opportune parole.

Martina propone di rompere questa dannosa e inutile litania di contumelie contro il populismo, una parole così ambigua da essere piegata alle convenienze di chi la usa, giusificando la faciloneria e l’indolenza mentale. Martina suggerisce, in sostanza, di evitare il manicheismo (una trappola in cui, per esempio, sono caduti quasi tutti i media americani dopo l’elezione di Trump), del quale la retorica populista si alimenta. Il manicheismo non può essere usato da coloro che vogliono con profitto criticare il populismo per non rischiare di battere nella sua stessa grancassa.

La SPD, che versa in una crisi non celabile anche se meno dirompente di quella degli altri partiti fratelli, ha avviato un programma di studi sui nuovi movimenti, progressivi e regressivi, che vanno sotto il nome di populismo e attraversano tutte le società occidentali.

I socialdemocratici tedeschi sono un partito, e questa loro identità la si vede e apprezza proprio nei casi di crisi – ovvero quando si tratta di trovare risorse, umane e culturali, per riaprire le finestre sul mondo e soprattutto essere disposti a guardare il mondo anche se non piace; per riuscire a individuare le nuove categorie di aggregazione che attirano i cittadini democratici verso movimenti che esprimo stanchezza nei confronti di privilegi e privilegiati, contro quella “casta” che occupa tutti i luoghi della vita pubblica: le istituzioni, i partiti e perfino, a volte, i sindacati.

Nella sua storia, che è parte della storia della democrazia, il populismo ha dimostrato che, in alcuni casi, ovvero dove ci sono istituzioni democratiche (come negli Stati Uniti di fine Ottocento), la sua protesta può riuscire a scuotere l’ordine socio-politico, a rimescolare le carte e riportare in alto quelli che sono stati spinti in basso, non solo dall’economia ma anche dal desiderio di distinzione che anima gli emergenti e gli arricchiti.

Vi è nell’anti-establishment populista una coniugazione radicale di un principio che è democratico. Infatti la dialettica opposizione/maggioranza sulla quale vivono le democrazie presume il discorso contro l’establishment – usato dai partiti di opposizione quando aspirano a conquistare la maggioranza. Quel che la democrazia rappresentativa non presume è ritenere, come molti populisti radicali fanno, che l’establishment corrisponda a una classe definita ancora prima della competizione, che sia cioè una “casta” ex ante e immobile. Questo dualismo ontologico tra establishment e popolo non appartiene alla democrazia.

Ecco perché ogni ricerca che voglia capire questo tempo di movimenti populisti deve ritornare alle categorie fondamentali della democrazia: all’eguaglianza, che è di opportunità e di dignità; alla libertà, che non è goduta dagli identici ma da tutti coloro che vivono sotto un’ordinamento giuridico, siano essi connazionali o non. Tra i fondamenti, vi sono anche quelle istituzioni di limitazione del potere, come l’autonomia della magistratura per esempio o degli apparati dello Stato e della Banca centrale. Dal 1945 tutto questo prende il nome di democrazia costituizionale.

Tornare ai fondamenti quindi, ma avendo cura di portare lo sguardo oltre le procedure e le istituzioni, poiché la democrazia fa promesse di auto-governo, di dignità sociale, di eguaglianza e di miglioramento economico. Queste promesse, anche se mai completamente realizzate, devono farci comprendere appieno che un partito democratico o di sinistra non può concentrare la sua azione ai diritti civili; esso non è un partito liberale.

A Martina, come a tutti coloro che dentro e fuori il PD sentono la responsabilità della loro sconfitta per reagire a essa, dovremmo suggerire di abbracciare in toto l’Articolo 3 della nostra Costituzione, ricchissimo di implicazioni e complesso. Già questo sarebbe un buon indizio di determinazione alla rinascita, per riconsiderare le funzioni del pubblico e le condizioni sociali della cittadinanza democrazia. C’è bisogno di “radicalità”, il bisogno di riandare ai fondamenti, alle radici.

la Repubblica, 14 maggio 2018

2 commenti

  • IO SO (quello che i giornali non dicono)
    Autodichia, pluralismo giurisdizionale, pluralismo interpretativo, conflitto tra poteri, presunzione di legittimità dell’atto amministrativo, discrezionalità, sono alcuni dei concetti elaborati da raffinate menti criminali e messi in atto da una folla d’imbecilli al servizio degli oligarchi.
    Io so i nomi di personaggi che hanno omesso di tutelare i diritti dei cittadini, facendo strame della Costituzione.
    Io so e posso provare, fra mille altre vicende, che:
    1) il Ministro del Lavoro e il Procuratore della Repubblica di Como (n. 1123/90) ritennero non penalmente rilevante il pagamento all’appaltatore, da parte del presidente di una cooperativa edilizia a contributo statale, di lire 300.000.000 per lavori mai eseguiti;
    2) le Ferrovie dello Stato nel 1992 promossero cinque dipendenti a posti inesistenti e ne trasferirono illegalmente una decina (compreso un lavoratore con figlia cerebrolesa dalla nascita, protetto dalla legge n. 104/1992), con un danno complessivo per l’ente pubblico di alcuni miliardi di lire, senza che i magistrati, i ministri competenti e il Capo dello Stato trovassero quelle condotte rilevanti sotto il profilo penale, contabile, disciplinare. Libere da ogni controllo le Ferrovie lanciavano i treni verso la strage di Viareggio del 2009;
    3) il Ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi, il Presidente del Consiglio Romano Prodi e il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel 2007 tollerarono le menzogne delle Ferrovie dello Stato che, guidate dall’amministratore Lorenzo Necci, avevano promosso alla qualifica dirigenziale persone raccomandate dai politici, di cui si era occupata la cronaca giudiziaria;
    4) i Supremi Giudici (n. 15293/2001) dichiararono legittima la riduzione della pensione di alcuni lavoratori in forza di una norma inesistente; confermarono (n. 4499/2007) la sentenza del giudice di rinvio che aveva violato il giudicato della precedente decisione della Cassazione (n. 13937/2002); ignorarono gli abusi delle Ferrovie nella scelta del personale per l’accesso alla qualifica dirigenziale (n. 5522/2002; n. 5382/2004), dopo che una precedente sentenza della Cassazione (n. 15810/2001) aveva affermato che “la difesa della società non pone più in discussione la violazione delle regole di buona fede e correttezza nella selezione dei dipendenti per l’accesso alla qualifica dirigenziale.”
    Le illegalità sopra riferite furono ritenute irrilevanti sotto l’aspetto penale, disciplinare e contabile in virtù di quella “visione politica che tende a situare il potere negli apparati e non nella comunità dei cittadini politicamente intesa” (Tina Anselmi); apparati che avevano “le loro ragioni per considerarsi impunibili” (Italo Calvino).
    Si può obiettare che quelle illegalità non sono crimini gravi. Non sono gravi per l’osservatore, ma non per la persona che ne subisce le conseguenze. E sono gravissime quando sono inserite in un sistema criminale, comune o politico, che si nutre necessariamente di ‘negligenze’, ‘inerzie’, ‘errori’, ‘imperizie’.
    La considerevole violazione delle norme giuridiche da parte dei rappresentanti delle pubbliche istituzioni è segno evidente che essa avviene all’insegna del motto “Lo Stato è Costa Nostra”. Il fatto affiora da innumerevoli atti del potere legislativo e di quello esecutivo e, con maggiore evidenza, dalle sentenze di quei giudici ordinari, amministrativi e contabili che hanno, come regola del loro operare, il rispetto della Costituzione.
    Le norme penali sono previste per “coloro che si sottraggono all’educazione, i quali hanno una certa durezza di natura che per nulla si riesce ad ammorbidire” (Platone); mentre la Costituzione dello Stato obbliga i pubblici ufficiali a comportarsi con “disciplina e onore”. Per essi il codice penale dovrebbe stabilire pene più severe rispetto a quelle previste per i privati. E invece la tolleranza del Potere per le illegalità dei pubblici ufficiali è così larga da indurre molti di essi a costituire “catene verticali, quasi sempre invisibili e talora segrete … enti, consigli, centri, fondazioni, eccetera, che, secondo i propri principi, dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e invece sono attratti negli stessi mulinelli del potere, corruttivi di ruoli, competenze, responsabilità” (G. Zagrebelsky).
    Non può esserci pace fra i cittadini nel paese in cui i giudici che vìolano in modo grave e manifesto la legge sono protetti dal Governo, dal Consiglio Superiore della Magistratura e dal Capo dello Stato. Tollerando le illegalità dei pubblici ufficiali, le Alte Autorità danno un significativo esempio di collaborazione solidale fra le istituzioni dello Stato rivolta ad accreditare atti e principi che la Costituzione aborre.
    14 maggio 2018

  • Siamo alle solite.

    Nobile fine (attuazione art. 3) – su cui, parliamoci chiaro, i cosiddetti “populisti” sono d’accordo, al di là del linguaggio forte che può terrorizzare solo qualche dama che teme gli portino via il tè delle 5 – ma il discorso sui mezzi per arrivare al fine? Dov’è?

    Come si fa ad attuare il principio costituzionale di eguaglianza sostanziale col pareggio di bilancio e l’indisponibilità della politica monetaria?

    Fino a quando Libertà e Giustizia non prenderà posizione chiara sull’ordoliberismo delle istituzioni EU (e sulla sua incompatibilità con la nostra Costituzione) stiamo facendo soltanto dolci e vuote chiacchiere da salotto.

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