Comprendere il populismo per batterlo

15 Mag 2018

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Nell’intervista rilasciata a Repubblica, Maurizio Martina afferma: “Di fronte alla nascita del governo più a destra della storia recente, è giusto dirsi che non basteranno gli anatemi: dobbiamo costruire un’alternativa popolare alla saldatura tra Lega e M5S superando le divisioni del passato, allargando ad energie nuove, ribadendo il nostro ruolo da protagonisti nel campo progressista”. Sono ottime e opportune parole.

Martina propone di rompere questa dannosa e inutile litania di contumelie contro il populismo, una parole così ambigua da essere piegata alle convenienze di chi la usa, giusificando la faciloneria e l’indolenza mentale. Martina suggerisce, in sostanza, di evitare il manicheismo (una trappola in cui, per esempio, sono caduti quasi tutti i media americani dopo l’elezione di Trump), del quale la retorica populista si alimenta. Il manicheismo non può essere usato da coloro che vogliono con profitto criticare il populismo per non rischiare di battere nella sua stessa grancassa.

La SPD, che versa in una crisi non celabile anche se meno dirompente di quella degli altri partiti fratelli, ha avviato un programma di studi sui nuovi movimenti, progressivi e regressivi, che vanno sotto il nome di populismo e attraversano tutte le società occidentali.

I socialdemocratici tedeschi sono un partito, e questa loro identità la si vede e apprezza proprio nei casi di crisi – ovvero quando si tratta di trovare risorse, umane e culturali, per riaprire le finestre sul mondo e soprattutto essere disposti a guardare il mondo anche se non piace; per riuscire a individuare le nuove categorie di aggregazione che attirano i cittadini democratici verso movimenti che esprimo stanchezza nei confronti di privilegi e privilegiati, contro quella “casta” che occupa tutti i luoghi della vita pubblica: le istituzioni, i partiti e perfino, a volte, i sindacati.

Nella sua storia, che è parte della storia della democrazia, il populismo ha dimostrato che, in alcuni casi, ovvero dove ci sono istituzioni democratiche (come negli Stati Uniti di fine Ottocento), la sua protesta può riuscire a scuotere l’ordine socio-politico, a rimescolare le carte e riportare in alto quelli che sono stati spinti in basso, non solo dall’economia ma anche dal desiderio di distinzione che anima gli emergenti e gli arricchiti.

Vi è nell’anti-establishment populista una coniugazione radicale di un principio che è democratico. Infatti la dialettica opposizione/maggioranza sulla quale vivono le democrazie presume il discorso contro l’establishment – usato dai partiti di opposizione quando aspirano a conquistare la maggioranza. Quel che la democrazia rappresentativa non presume è ritenere, come molti populisti radicali fanno, che l’establishment corrisponda a una classe definita ancora prima della competizione, che sia cioè una “casta” ex ante e immobile. Questo dualismo ontologico tra establishment e popolo non appartiene alla democrazia.

Ecco perché ogni ricerca che voglia capire questo tempo di movimenti populisti deve ritornare alle categorie fondamentali della democrazia: all’eguaglianza, che è di opportunità e di dignità; alla libertà, che non è goduta dagli identici ma da tutti coloro che vivono sotto un’ordinamento giuridico, siano essi connazionali o non. Tra i fondamenti, vi sono anche quelle istituzioni di limitazione del potere, come l’autonomia della magistratura per esempio o degli apparati dello Stato e della Banca centrale. Dal 1945 tutto questo prende il nome di democrazia costituizionale.

Tornare ai fondamenti quindi, ma avendo cura di portare lo sguardo oltre le procedure e le istituzioni, poiché la democrazia fa promesse di auto-governo, di dignità sociale, di eguaglianza e di miglioramento economico. Queste promesse, anche se mai completamente realizzate, devono farci comprendere appieno che un partito democratico o di sinistra non può concentrare la sua azione ai diritti civili; esso non è un partito liberale.

A Martina, come a tutti coloro che dentro e fuori il PD sentono la responsabilità della loro sconfitta per reagire a essa, dovremmo suggerire di abbracciare in toto l’Articolo 3 della nostra Costituzione, ricchissimo di implicazioni e complesso. Già questo sarebbe un buon indizio di determinazione alla rinascita, per riconsiderare le funzioni del pubblico e le condizioni sociali della cittadinanza democrazia. C’è bisogno di “radicalità”, il bisogno di riandare ai fondamenti, alle radici.

la Repubblica, 14 maggio 2018

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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