Cambiamo i giocatori, non le regole del gioco

06 Mag 2018

Tomaso Montanari

In un articolo apparso sul «Fatto quotidiano» dello scorso 28 dicembre, e che ho firmato come presidente di Libertà e Giustizia, mi domandavo «se nella prossima legislatura, breve o lunga che sia, dovremo trovarci di nuovo a difendere la Costituzione. Fantapolitica? All’ultima Leopolda Matteo Renzi ha parlato del referendum in questi termini: «Abbiamo perso quella sfida, ma la rifarei domani mattina perché era giusta». … E se nel prossimo Parlamento non riuscirà a formarsi una maggioranza, si creeranno le condizioni ideali per chi vorrà riprovare ad inalberare la bandiera equivoca della ‘governabilità’, additando nel parlamentarismo della Costituzione la causa di tutti i mali. Se aggiungiamo a questo dato di lunga durata l’intramontabile funzione delle riforme costituzionali come arma di distrazione di massa (utilissima a distogliere l’attenzione collettiva da povertà, disoccupazione, erosione dei diritti, corruzione politica…) non si può escludere che un nuovo Nazareno nasca proprio su un nuovo accordo per l’ennesimo stravolgimento della Carta».

Per prevedere una situazione tanto banale, perché purtroppo vista e rivista decine di volte, non occorreva certo avere doti profetiche: bastava conoscere l’indolenza, l’ignoranza, la coazione a ripetere e in un’ultima analisi lo scarsissimo amore per la democrazia che caratterizzano il nostro ceto politico. E infatti, puntualmente, già oggi ci troviamo esattamente in quella situazione.

È stato naturalmente Matteo Renzi – che rappresenta la quintessenza del professionismo politico, visto che, come avrebbe detto Berlusconi quando era Berlusconi, ‘non ha lavorato un giorno solo in vita sua’ – a dirlo senza veli e senza vergogna di fronte al servizio pubblico, genuflesso nella persona di Fabio Fazio: per avere un governo bisogna cambiare le regole. Cioè la legge elettorale, e possibilmente la Costituzione.

I suoi fedeli Tommaso Cerno e Stefano Ceccanti, d’altra parte, hannp già presentato nei rispettivi rami del Parlamento un disegno di legge costituzionale che cambierebbe in modo dirompente la forma di governo, portandoci verso un presidenzialismo alla francese, cioè senza contrappesi all’americana (dunque un ultrapresidenzialismo di fatto, che punta tutto su un Parlamento allineato al Presidente). Su questa testata, Gianni Pittella ha scritto candidamente che lo scopo di questo stravolgimento del progetto costituzionale è il bene del Partito Democratico: «tornare al posto che ci compete all’interno del sistema democratico». Non il bene della Repubblica, ma quello della Ditta insomma.

È la risposta dell’egotismo renziano allo stallo provocato dal suo stesso ceto politico, e quella risposta si chiama plebiscitarismo e bonapartismo. Se il Parlamento non funziona, pensa Renzi, bisogna che la questione venga risolta tra il Capo e la Folla. E non importa se il popolo sovrano ha già detto di no, bocciando la riforma costituzionale, che era pensata in perfetto coordinamento all’Italicum stroncato dalla Corte Costituzionale: solo dettagli, di fronte a un Renzi che ormai si sente già en marche.

Si potrebbe liquidare tutto questo come il patetico disco rotto di un giovane vecchio politico che è arrivato precocemente alla fine della sua parabola, perdendo il contatto con il Paese e con la realtà. Forse: ma l’esperienza insegna che i prolungati stalli politici si prestano terribilmente bene alla retorica del decisionismo, della governabilità, dell’antiparlamentarismo.

E allora è il momento di dire con forza che abbiamo ben chiaro, quaggiù in basso, che la colpa dello stallo non è delle regole, ma dei giocatori.

Potrà sembrare una posizione qualunquista o populista: ma io sono profondamente convinto che il sistema istituzionale sia bloccato a causa della inettitudine e della corruzione (intesa come disprezzo dell’interesse generale e perseguimento dell’interesse di parte) del ceto politico, e non a causa delle regole. E il rischio è che tutto questo ci costi moltissimo.

Perché se questa situazione producesse una virata verso un sistema elettorale maggioritario sarebbe un disastro. Il maggioritario, infatti, toglie rappresentanza a una parte importante del Paese, diminuisce la democrazia, porta pericolosamente il conflitto fuori dal Parlamento e permette la governabilità solo a prezzo di fingere che il Paese sia diverso. In altre parole: permette ai giocatori di vincere truccando le carte.

Il proporzionale (e di fatto il pessimo Rosatellum, che è certo contro la Costituzione perché produce voti diseguali e sovrana incertezza sull’efficacia del voto, ma ha funzionato sostanzialmente da proporzionale), invece, costringe i giocatori a giocare meglio. A piegare i propri interessi di fronte all’interesse generale. Costringe al compromesso: che non è l’inciucio e non è una vergogna, se è trasparente e senza contropartite occulte. Ed è ora di dire con forza che la democrazia del dialogo è preferibile a quella della clava.

Dopo il 4 marzo i giocatori si sono rivelati non all’altezza: dimenticandosi che nessuno era stato messo al governo o all’opposizione, ma tutti in Parlamento per ‘parlare’, si è cominciato a ragionare di vincitori e vinti e a contrapporre tweet e dichiarazioni. Nessun vero dialogo, nessun tavolo, nessun serio confronto: da cittadino che paga le tasse vorrei dire che questo ceto politico andrebbe licenziato in tronco per tanta manifesta incapacità, oltre che per l’evidente malafede.

Certo, non tutti si sono comportati esattamente nello stesso modo, ma il quadro generale è deprimente.

I ‘barbari’ del Movimento 5 Stelle sono quelli che hanno saputo rispettare di più lo spirito del proporzionale, cercando l’accordo dove lo si poteva trovare (e anche con il partito neofascista di Salvini, cosa per me inaccettabile). Ma la pervicacia con cui è stato difeso l’inesistente ‘diritto’ di Di Maio a fare il presidente del consiglio è stata un grave errore.

Il Centrodestra, profondamente spaccato, è stato del tutto incapace di prendere una qualunque iniziativa.

E il Pd, con il suo clamoroso aventino, è stato il partito che più si è dimostrato refrattario ad accettare le regole del gioco proporzionale. Sostanzialmente, il Pd sta dicendo che bisogna rivotare finché una legge proporzionale non dia un risultato da maggioritario, cioè binario. Il che equivale a dire: ‘non votateci’. E finirebbe di certo così: perché è chiaro che, se si tornasse al voto con questa legge elettorale, qualunque elettore di buon senso negherebbe il voto ad una forza programmaticamente indisponibile a utilizzare i suoi voti per costruire un governo.

Di qua l’idea di cambiare le regole: ‘visto che non so e non voglio giocare, dice Renzi, cambiamo gioco’. Probabilmente non ci sono le condizioni perché questo progetto di concretizzi: ci si arenerebbe già solo sull’attribuzione del premio di maggioranza alla coalizione (secondo l’interesse del Centrodestra), o al partito (soluzione he premierebbe i 5Stelle).

Ma non basta sperare che non succeda, bisogna saper dire perché non deve succedere. Saper spiegare perché da una crisi democratica non si esce con meno democrazia, da una crisi della rappresentanza non si esce con meno rappresentanza.

Il fronte del No al referendum del 4 dicembre 2016, il fronte delle associazioni, del Coordinamento per la democrazia costituzionale, dei semplici cittadini deve tornare a farsi sentire: è il tempo di una vasta e incisiva campagna di opinione che riesca a orientare le scelte del Parlamento.

Un ceto politico incapace e corrotto sta provando a risolvere i suoi problemi licenziando il popolo: non stiamo a guardare. Diciamolo con forza: a non funzionare sono i giocatori, non le regole del gioco.

Huffingtonpost.it, 6 maggio 2018

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