Perché l’Amaca di Serra sulla scuola non è stata capita

26 Apr 2018

Tomaso Montanari

Michele Serra si è molto stupito dell’incomprensione della sua Amaca sulle aggressioni ai professori: «I tempi devono essersi ribaltati – ha scritto nel pezzo in cui replica alle critiche – davvero ribaltati, se invece in molti hanno scelto di rivolgermi esattamente l’imputazione opposta, accusandomi di “classismo” e di “puzza sotto il naso”, nel solco del molto logoro, molto falsificante ma sempre trionfante cliché “quelli dell’establishment contro quelli del popolo”».

Ma davvero è così? Cioè davvero la colpa è dei ‘tempi cambiati’ e del sommo male dei nostri tempi, l’esecrato ‘populismo’?
Mi ha molto colpito che una giornalista pacata e intelligente come Annalisa Cuzzocrea abbia difeso Serra usando su twitter l’hashtag #tuttiprevenuti. E ho provato a risponderle scrivendole: «Tutti prevenuti, cara Annalisa? O bisognerebbe chiedersi perché molti abbiano reagito così? Non peserà il contesto delle altre posizioni di Serra? E non solo sue (penso agli articoli di Merlo)? E non credi che un giornale debba chiederselo invece di rispondere ‘non ci capite’?»

Non l’avessi mai fatto: Francesco Merlo è insorto coprendomi di insulti personali, e iniziando col darmi elegantemente del fascista. Ci sono giornate sbagliate, chissà cosa aveva mangiato Merlo: pazienza.

Ma, al di là delle inevitabili incomprensioni legate ai 140 caratteri, vorrei provare a spiegare meglio cosa intendevo dire.
Quando Michele Serra scrive che «il livello di educazione, di padronanza dei gesti e delle parole, di rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza» lo fa dicendo esplicitamente che ritiene tutto questo «uno scandalo», e dunque dicendo che questo stato delle cose va ribaltato. Perché allora una buona parte dei suoi lettori reagisce indignandosi, come se invece Serra aderisse a quella realtà: come, cioè, se non solo non la volesse cambiare, ma lavorasse per consolidarla?

Ebbene, la risposta riguarda il cuore stesso della situazione politica in cui ci troviamo. Alle ultime elezioni il Paese si è spaccato socialmente, ancor prima e ancor più che ideologicamente. Un’Italia mai così diseguale dalla Guerra in poi, un’Italia in cui quasi un terzo dei cittadini è a rischio di povertà, ha votato dividendosi tra ricchi e poveri, tra salvati e sommersi, tra benestanti anziani e precari poveri. È tornato il voto di classe: solo che quella che chiama se stessa la sinistra stavolta si è collocata dalla parte dei padroni. Già: perché in questa divisione, il Partito Democratico ha vinto solo nei quartieri appunto benestanti, insieme a Forza Italia: mentre i Cinque Stelle e (ahimé) la Lega hanno vinto tra i metalmeccanici, i precari, i disoccupati. Almeno sul piano del rapporto tra censo e voto, il populismo si è di fatto realizzato: popolo contro establishment.

E (scrivo le prossime parole, che riguardano il giornale con cui collaboro, con amore dolente, e spero con la lucidità di chi vede un dato di fatto) anche Repubblica è stata percepita come un giornale di establishment, di sistema, dei ricchi.
Commentando l’analisi sociale del voto, lo stesso Serra ha scritto: «Si è ben capito il fatale errore degli anni precedenti, la sottovalutazione degli esclusi, la distrazione ben pasciuta degli inclusi … Però adesso non esageriamo … Quella dei centri storici è brava gente, dopotutto: italiani come gli altri, anche se con strane abitudini tipo leggere i quotidiani e mangiare il sushi. Si rischia, sennò, di calcificare uno snobismo all’incontrario, con il vigoroso contado, sede dei sani valori di una volta, che guarda dall’alto in basso la città decadente». Dove il binomio quotidiani-sushi è davvero eloquente, anche se forse in modo preterintenzionale.

Alla vigilia delle elezioni, Michele Serra mi criticò esplicitamente perché avevo scritto che sarei andato a votare in modo molto tormentato. Lui l’avrebbe fatto con gran serenità, scrisse. Risposi allora che «anni fa, quando scrivevo che Renzi avrebbe condotto la Sinistra al disastro e regalato il Paese alla Destra, Serra mi accusava di essere un’anima bella incontentabile. Oggi che quella facile profezia si realizza, lui vota sereno. Ma è proprio la serena indifferenza dei benestanti di fronte al collasso del Paese e alla sorte dei sommersi uno dei nostri principali problemi».

Era il 4 marzo: il voto del giorno dopo avrebbe ben dovuto aprire gli occhi. E invece le reazioni sono state di registro ben diverso. Francesco Merlo ha censurato il fatto che «Di Maio, che fu commesso allo stadio di Napoli, ieri alla Camera veniva riverito come uno statista dai commessi in livrea, dai suoi ex colleghi». E ancora Merlo ha scritto: «Ieri mattina in Senato tanto il riso nevrotico di Renzi quanto la pomposa cupezza di Grasso ci raccontavano il fallimento di quell’Italia che aveva sognato le mediazioni culturali e i libri, quell’ Italia di sinistra che si era illusa di tirarsi fuori dal pantano attraverso i grandi riferimenti internazionali, da Camus all’America di Obama, da Tocqueville a Marx, da Bobbio ad Habermas. E invece – unico paese dell’Europa avanzata – qui il Castello è stato espugnato dai populismi senza incontrare resistenza. Forse è per questo che i grillini ora pensano di avere titoli e competenze nell’amministrazione del territorio occupato». Vittorio Zucconi, poi, ha più volte tuonato su twitter contro il fatto che a Di Maio manca la laurea. E si potrebbe continuare molto a lungo, citando Corrado Augias e altre firme storiche del giornale.

Ecco, se Serra non viene capito più, è esattamente a causa di questo contesto. Qualunque fossero le intenzioni dei vari editorialisti appena citati, questo discorso è stato, nel complesso, percepito come una reazione di classe. Come una reazione dell’establishment contro i risultati (e implicitamente contro le regole) del gioco democratico.

E allora io credo che sarebbe saggio cambiare registro, e provare a rileggere la storia recente. Provare ad ascoltare il Paese.
Come possiamo dimenticare che da noi, negli ultimi venticinque anni, un establishment ignorante e corrotto come in pochi altri paesi del mondo – e la cui stessa esistenza smentisce alla radice l’assioma di Serra per cui «il rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza» – ha devastato l’Italia, culturalmente e socialmente? Un establishment prima berlusconiano e poi, senza soluzione di continuità, renziano: un establishment del Partito Democratico che, se avesse ricevuto un millesimo delle critiche oggi (in parte giustamente) rivolte ai 5 Stelle, sarebbe stato probabilmente ridimensionato e arginato.

Il quadro è infine radicalmente mutato, con il tonfo del 4 marzo. E una parte molto larga dell’opinione pubblica guarda oggi con diffidenza a chi ha di fatto appoggiato senza critiche l’ignorantissimo giglio magico renziano, a chi ha taciuto o plaudito mentre i governi del centrosinistra smontavano la scuola pubblica e l’ascensore sociale.

In questa opinione pubblica c’è anche una fetta importante degli storici lettori di Repubblica: una fetta che si è allontanata dal giornale perché avrebbe voluto vedere nei confronti di Renzi lo stesso rigore giustamente usato con Berlusconi. E che oggi vorrebbe vedere nei confronti del Movimento 5 Stelle una critica ferma e profonda, certo, ma non di establishment, o classista.

Se le parole di Serra sulla scuola sono state considerate ‘di destra’ è perché c’è ormai un divorzio tra una parte dell’opinione pubblica di sinistra e i commenti di alcune storiche firme di Repubblica. Da lettore e da collaboratore di questo giornale così importante io credo che sarebbe saggio e lungimirante sforzarsi di capire.
E non blindarsi nella certezza che fuori siano #tuttiprevenuti.

MicroMega , 23 aprile 2018

amaca di serra

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