C’era una volta, come nelle fiabe, un paradiso tecnologico. C’era un luogo di libertà, anche se in effetti si trattava di un non luogo, d’uno spazio immateriale esteso quanto il mondo. E in quello spazio gli uomini potevano finalmente stabilire relazioni orizzontali, senza padroni, senza gerarchie.
In origine, Internet è stato tutto questo. Niente dogane, né censure, né controlli di Stato lungo i suoi mille sentieri. Perché dopotutto era ciascuno di noi, lo Stato. E al contempo ciascuno diventava fonte e destinatario di notizie, autore e lettore, consumatore e imprenditore, elettore ed eletto. L’eguaglianza perfetta nella più totale libertà. L’ utopia di Tommaso Campanella, una nuova Città del Sole. Ma anche di Kant, con la sua pace perpetua. Giacché la guerra non può mai attecchire se attecchisce la comunicazione universale, il reciproco parlarsi e ascoltarsi.
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Quando è evaporata l’illusione? Forse quando Google ha rovesciato le proprie strategie. All’ inizio s’apriva a tutti i siti, ti trasportava ovunque, senza distinguere tra periferie e cattedrali. Così dichiarava nel 2004 il suo co-fondatore, Larry Page: «Noi vogliamo che veniate da Google e troviate rapidamente ciò che cercate. A quel punto, saremo felici di dirigervi su altri siti». Adesso, però, se chiedi chi sia il miglior pediatra di New York o il ferramenta più fornito di Milano, trovi una risposta sola. La risposta riflette un’opinione, un punto di vista soggettivo, però ha l’effetto di sbarrare il traffico verso le altre destinazioni della Rete. Sicché quest’ ultima, da struttura aperta e pluralistica, si è trasformata in un microcosmo chiuso, dove lo sguardo corre in verticale, non più in orizzontale. Ed è uno sguardo stretto, limitato, dal momento che il 91,5% degli utenti di Google si ferma alla prima pagina. Succede lo stesso nel giardino di Facebook, di Twitter, di Instagram: tutti i contenuti di terze parti devono passare attraverso la loro intelaiatura.
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Da qui il potere economico, politico, sociale dei Big Data. Ma da qui pure una restrizione dei nostri orizzonti democratici, delle nostre relazioni come cittadini della polis. La chiamanobubble democracy, la democrazia della bolla: un sistema dove le correnti d’opinione si muovono in sciami dalle traiettorie imprevedibili e cangianti, alimentati per lo più da una carica di risentimento, non dal sentimento. E allora ecco gli hate speech, parole violente come spari, che deflagrano ai quattro angoli del web. Ecco le fantasie di cospirazioni, di complotti, che incattiviscono le nostre relazioni, che propagano il sospetto, una reazione difensiva e al contempo offensiva contro i fantasmi della nostra società. Ed ecco, in ultimo, il doppio paradosso della democrazia elettronica. Perché dispensa libertà pubbliche e controlli privati: una «schizofrenia tecnologica», come diceva Stefano Rodotà. E perché le libertà non hanno contrappesi, evocando perciò l’ammonimento di Platone: «Dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore e più feroce».
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Sta di fatto che la tecnologia – nonostante ogni apparenza – esprime una vocazione autoritaria, non libertaria. Uno smartphone, per esempio, è semplice da usare. Così pure un lettore di e-book, il navigatore montato sulle nostre autovetture, la PlayStation. Tutti i nuovi dispositivi elettronici fanno a gara per rendere il loro uso sempre più intuitivo, più immediato, come i giochi dei bambini; e su tale qualità si decide la competizione fra le aziende produttrici. La democrazia, viceversa, è una creatura complicata, con le sue lungaggini, con le procedure parlamentari o giudiziarie da cui scaturiscono decisioni sempre revocabili, sempre esposte a un’altra ripartenza.
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Talvolta troppo complicata, è vero, specialmente alle nostre latitudini; tuttavia ovunque nel mondo gli adolescenti possono usare il tablet, però non possono votare. Da ciò un elemento di frizione, se non d’antagonismo, fra democrazia e innovazione tecnologica; da ciò, forse, un inquietante corollario. Ossia il successo globale dei movimenti populisti, delle strategie politiche semplificanti, delle scorciatoie decisioniste. Sarà una coincidenza, però la democrazia non è mai stata così fragile come da quando siamo tutti connessi con un clic. Giacché la tecno-scienza sta modificando le nostre strutture mentali, oltre che la cultura collettiva. Ci abitua a soluzioni rapide, a risposte semplici anche dinanzi ai problemi più complessi. Ma vale pur sempre il vecchio monito di Montesquieu: «Il tiranno pensa innanzitutto a semplificare le leggi».
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Insomma, il paradiso promesso dalla Rete rischia di dimostrarsi simile all’inferno, come emerso con lo scandalo dei profili Facebook violati da Cambridge Analytica, la società che ha spinto l’elezione di Donald Trump. Nel frattempo cadono una a una le illusioni con cui quel paradiso ci era stato annunziato. Non è vero che il web sia l’arma che ci difende dal potere, perché quest’ultimo se ne serve meglio e di più rispetto ai cittadini: per esempio attraverso l’ e- government, con cui il potere esecutivo si rafforza, marginalizzando il Parlamento. E non è vero che Internet consenta la massima partecipazione democratica nella selezione (ed eventualmente nella revoca) dei rappresentanti popolari. O meglio, consente la partecipazione, ma talvolta a scapito della democrazia. Giacché quest’ultima si nutre di procedure, di garanzie formali che mancano del tutto quando l’agorà si trasforma in tribunale, come le plebi radunate al Colosseo rispetto al gladiatore sconfitto.
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Tocqueville paventava la dittatura della maggioranza, quale massimo rischio delle democrazie moderne. Qui e oggi, viceversa, il pericolo concreto consiste nella dittatura della minoranza.
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Repubblica, 18 marzo 2018
Comincio col dire che non condivido affatto la tesi sostenuta dal professor Ainis che “la tecnologia – nonostante le apparenze – esprime una vocazione autoritaria”.
Io penso, infatti, che la tecnologia abbia in sé una natura neutra e che l’utilizzo che ne viene fatto dagli uomini possa andare in una duplice direzione: sia in direzione dell’autoritarismo che in direzione della democrazia.
Così come l’invenzione delle macchine alla fine del 1700 ebbe in sé una natura neutra, anche se poi fu utilizzata dai loro possessori per sfruttare i lavoratori e non certo per liberarli dal lavoro.
I luddisti però confusero lo sfruttamento dei capitalisti con la natura stessa delle macchine e se la prendevano con le macchine anziché con i loro padroni. Sbagliando!
Noi dobbiamo fare attenzione a non commettere lo stesso errore dei luddisti: a prendercela con la tecnologia di Internet, invece che con i padroni di Internet (Google, Facebook…).
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E’ vero quello che dice il professore Ainis a proposito della democrazia e cioè che essa “è una creatura complicata, con le sue lungaggini, con le sue procedure parlamentari o giudiziarie da cui scaturiscono decisioni sempre revocabili, sempre esposte ad un’altra ripartenza.”.
Questo non vuol dire, però, che le procedure democratiche siano un moloch immodificabile e che non possano essere (anche positivamente) modificate e facilitate attraverso un uso selettivo e intelligente delle tecnologie, anche di quelle informatiche: di questo credo non bisogna avere un timore pregiudiziale.
Non penso inoltre, come mi pare ritiene il professor Ainis, che “il successo globale dei movimenti populisti” (quali poi? solo il M5S e la Lega? perché il Berlusconismo? e il Renzismo?) sia la diretta conseguenza “delle strategie politiche semplificanti, delle scorciatoie decisioniste”, quindi dell’uso di Internet.
Questa mi sembra una lettura neoluddista dei problemi che si trova ad affrontare oggi la democrazia: attribuire alla tecnologia “colpe” che invece affondano nell’economico e nel sociale, cioè nell’uso che si fa, da parte di chi ne ha il potere, delle tecnologie informatiche.
D’altra parte i movimenti populisti si oppongono a fenomeni sociali e politici (la disoccupazione dilagante, specie al Sud, la sempre maggiore precarietà del lavoro, l’aumento delle disuguaglianze, il ridimensionamento del welfare…) che non hanno certo causato loro, ma semmai hanno subito e subiscono. Saranno pure una reazione sbagliata o quantomeno ingenua; ma sono, appunto, una reazione a fenomeni già in atto, non la loro causa e scaturigine.
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“…il paradiso promesso dalla rete rischia di dimostrarsi simile all’inferno” – dice il professor Ainis. E’ vero questo rischio ed è bene tenerlo presente. Questo non vuol dire, però, che la rete sia ipso facto l’inferno.
E’ vero, come dice il professor Ainis, che il potere si serve del web meglio e di più rispetto ai comuni cittadini. Questo, però, non vuol dire che, se i cittadini comuni imparano ad usare bene il web, non possano utilizzarlo (assieme ad altri strumenti) per difendersi dal potere.
E’ vero quello che dice il professor Ainis che Internet consente “la massima partecipazione nella selezione… dei rappresentanti popolari”, “ma talvolta a scapito democrazia”. E’ vero, dunque che l’uso di Internet presenta dei rischi (anche seri) per la democrazia. Ma non è vero, però, che questi rischi siano assoluti e che ad essi non si possano trovare dei rimedi, delle soluzioni.
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Infine, concordo totalmente – almeno nella sua formulazione letterale – con la chiusa finale del professor Ainis: “Tocqueville paventava la dittatura della maggioranza, quale massimo rischio delle democrazie moderne. Qui e oggi, viceversa, il pericolo consiste nella dittatura della minoranza.”.
Ma non la condivido, invece, nella sua intenzione sottintesa. Infatti, mi pare che Ainis, quando parla di “dittatura della minoranza”, pensi alle “minoranze” uscite “vittoriose” dalle ultime elezioni del 4 marzo; e cioè al M5S e alla Lega. Tutto il suo discorso precedente lo lascia intendere.
Se fosse questo il sottinteso del professor Ainis, io dico (pur senza essere elettore e manco simpatizzante né del M5S né, tantomeno, della Lega) che non vedo in queste due minoranze nessun rischio che possano mai realizzare una dittatura. Almeno fin quando restano, com’è allo stato attuale, delle minoranze.
Mentre vedo non solo il rischio ma la realtà che una dittatura si sia già realizzata e da parecchio tempo oramai: quella dell’1% contro il restante 99% della popolazione; e non solo in Italia, ma in gran parte del mondo globalizzato.
E’ contro questa dittatura, che forse e a loro modo (ingenuo, sbagliato, di pancia e poco razionale: su questo possiamo poi discutere…) insorgono i populismi, segnalando problemi, che i “sinceri e gli autentici” democratici (e i partiti da cui essi si sentono meglio rappresentati) farebbero bene a non sottovalutare né tantomeno a (semplicisticamente) demonizzare.
Giovanni Lamagna
Penso che il pensiero espresso da Ainis sia corretto e condivisibile.
Ainis termina dicendo “Qui e oggi, viceversa, il pericolo concreto consiste nella dittatura della minoranza.”
Infatti mi sembra che l’Italia – e il mondo intero, per questo – sia dominata da una diffusa ma ristrettissima oligarchia. Che la democrazia, intesa come la definisce compiutamente Ainis, sia un’esperienza del passato.