Antifascismo, postfascismo e razzismo

16 Feb 2018

«È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» recita la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione.

Queste parole mi son tornate in mente qualche giorno fa, a Macerata. Dove ciò che è successo non avrebbe bisogno di un particolare sforzo d’interpretazione. Sul cadavere di una donna un uomo di colore si sarebbe accanito con una crudeltà che sfonda i limiti dell’immaginabile. Poco dopo un altro maschio – bianco, con un credo politico fieramente tatuato nella storia e sulla pelle – ha sparato a degli inermi esseri umani, per il solo fatto che erano anche loro di colore.

Non è difficile comprendere che non può esservi alcuna causalità sufficiente per giustificare un passaggio da un reato al quale risponderà lo stato di diritto a un atto terroristico di stampo fascista che rappresenta la messa in discussione della radice di quello stesso stato di diritto. L’ha spiegato benissimo un politico. Si chiama Macron, non proprio un comunista. A seguito di un evento analogo ha scritto: «Ogni volta che un cittadino è aggredito a causa della sua età, del suo aspetto o del suo credo religioso è tutta la Repubblica a essere aggredita». Forse sarebbe bastato fare copia e incolla.

Lo penso mentre cammino per le strade di Macerata. Sento un uomo parlare al microfono. È il leader nazionale di Casa Pound, sta dicendo: “sono qui per portare un saluto romano a tutti”. Pochi giorni dopo il leader di Forza Nuova rivendicherà a gran voce il suo “diritto a parlare”, essendo regolarmente ammesso alle elezioni politiche. In un certo senso ha ragione: le sue parole smascherano un’evidente e voluta contraddizione della nostra democrazia rispetto alla XII disposizione.

Ma bisogna starci davvero a Macerata in questi giorni per capire che non si tratta semplicemente di una discussione su chi abbia diritto di parola. Ciò che è accaduto può legittimare una prassi che, nascosta e forse sottovalutata, appare d’improvviso come giustificata e addirittura auspicabile. Questa tendenza si chiama razzismo e la sua giustificazione – o anche la sua bonaria condanna – non risuona solo nell’orrore dei commenti sui social o nei discorsi che si ascoltano per strada. In una sorta di giacobinismo al contrario, la politica sembra quasi tutta compatta nel farsi imporre il vizio razzista dei discorsi che ascolto per strada. Usa la propria funzione esemplare al contrario, non per limitarli,  ma per compiacerli. Non solo quei partiti che, pur candidati alle prossime elezioni politiche, solidarizzano col terrorista.

Ma anche – per fare solo un esempio – il nostro ministro dell’Interno, Marco Minniti, il quale non esita a dichiarare di aver fermato gli sbarchi dei migranti perché aveva previsto un “caso Traini”. Legittimando così a livello istituzionale quella causalità insensata tra la migrazione e il razzismo, tra la responsabilità di un delinquente e la possibilità di scaricare la nostra rabbia su tutti coloro che ne condividono il colore. Si potrebbe chiamare la consacrazione di una cosa che in Italia non conoscevamo e che alcuni definiscono come “razzismo democratico”.

Non è un caso. Molte democrazie hanno dovuto “autoemendarsi”, nella loro storia, da una genealogia razzista. La nostra Repubblica, invece, nasce tragicamente già matura, a causa dell’infamia fascista della Dichiarazione sulla razza. Proprio le norme di attuazione di quella disposizione transitoria, da cui son partito, fanno esplicito riferimento al divieto di propaganda razzista. Applicando così la convinzione che razzismo e fascismo condividano la stessa radice: una Repubblica antifascista è anche una democrazia che riconosce nel razzismo la stessa essenza morale del fascismo.

Com’è possibile allora che coloro che dovrebbero rappresentare questa Repubblica antifascista possano invece accettare un ordine del discorso razzista? La sensazione è che molti dei politici abbiano di fatto aderito a quella falsa causalità che tollera il razzismo in nome della paura delle migrazioni, esasperata ad arte. E soprattutto che abbiano accettato una ormai “scontata” equidistanza: come se fascismo e antifascismo fossero due parti della contesa politica, due estremismi contrapposti e anacronistici.

Quest’atteggiamento di neutralismo – che risulta evidente, per esempio, dallo spazio comunicativo che si garantisce alle associazioni esplicitamente fasciste – è, in questi giorni, deflagrato fino a manifestarsi in due nodi politici per i quali sarà il caso di impegnarsi con tutte le forze nei prossimi mesi.

Il primo nodo politico concerne l’incapacità dei politici di cogliere che ogni loro discorso si colloca necessariamente su un ordine simbolico. Cioè non si riferisce solo a ciò a cui si riferisce, ma autorizza (o interdice) un’idea generale della società in cui viviamo. È ciò che Gramsci voleva ricordare quando – in modo tanto giusto quanto grottesco, a rileggerlo oggi – suggeriva che tutti i dirigenti politici sono necessariamente degli intellettuali.

Ecco, a me pare che le dichiarazioni sopra ricordate, come anche la richiesta di sospendere manifestazioni pubbliche unitarie contro il fascismo, cedendo così alla convinzione che l’antifascismo possa essere divisivo, non tengano conto di ciò che significano rispetto alla legittimazione di un’idea generale di società. Probabilmente loro malgrado (ma non è certo un’attenuante), queste parole rappresentano una resa culturale a quell’idea secondo cui è tempo di essere postfascisti.

Il secondo nodo politico è connesso esattamente alla funzione ideologica di questo pensiero postfascista. Dopo Macerata è infatti evidente che il rischio – speriamo resti tale – è che esso si espliciti come un pensiero post-antifascista. Perché per buona parte dell’opinione pubblica e dei nostri politici esso si concretizza ormai nella tentazione di assolvere o ridimensionare gli atteggiamenti fascisti (magari giustificandoli dietro la legittimità della paura dei migranti) e in una sorta di criminalizzazione preventiva dell’antifascismo, che nel migliore dei casi è solo un innocuo residuo di un’epoca finita e nel peggiore viene visto come un estremismo parziale e addirittura potenzialmente eversivo.

Smascherare la funzione ideologica di questo pensiero postfascista è tanto necessario quanto semplice. Perché il ruolo dell’antifascismo nella Costituzione è quello di un evento fondatore, capace di renderci comunità. E fare a meno dell’antifascismo significa semplicemente cercare di imporre un’altra fondazione di ciò che ci fa stare insieme. A me pare evidente che sono due gli eventi fondativi che stanno cercando (in un’alleanza prevedibile) di sostituirsi al ruolo dell’antifascismo. Il primo è il fascismo del capitalismo neoliberista (che riduce la democrazia a un gioco nominale e produce l’unico valore – quello economico – in grado di misurare i nostri rapporti) e il secondo è il fascismo dell’odio dei penultimi contro gli ultimi, che permette la comunità sacrificale del ‘tutti contro uno’. Il trauma di Macerata chiarisce definitivamente che ciò che stiamo rischiando non è una società dentro cui vi sia anche l’odio, ma una società fondata sull’odio.

La Costituzione non è conciliabile con questi due fascismi fondativi proprio perché riconosce l’antifascismo come evento fondatore della nostra Repubblica. È sempre più necessario ripetere – anche ai politici – che l’antifascismo non è parziale, non è una parte. E anche il terrorismo fascista non può essere parte di una democrazia. Scegliere dove stare tra antifascismo e fascismo è semplicemente, oggi come allora, scegliere tra la democrazia e la barbarie.

(*) L’autore è professore di Filosofia teoretica all’Università di Macerata e socio di Libertà e Giustizia.

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