Trattativa Stato-mafia: stessa ‘difesa’ nel processo, sia per Bagarella che per Mori

14 Feb 2018

Senza attendere l’arringa dei suoi difensori, il boss Leoluca Bagarella (in foto) invia una memoria autografa alla Corte d’assise di Palermo chiedendo “di essere assolto dal reato contestato per non averlo commesso”, oppure, in subordine, che “venga applicato l’articolo 649 del codice di procedura penale”. Il padrino di Cosa nostra, che ha collezionato 13 ergastoli per le stragi mafiose, si improvvisa avvocato di se stesso e scrive di suo pugno: “Nessuno può essere condannato due volte per lo stesso reato, anche se viene contestato in forma diversa”. È la stessa richiesta formulata, subito dopo, dal professor Enzo Musco, avvocato del generale Mario Mori, che rivolgendosi ai giudici di Palermo reclama: “Voi dovete dichiarare chiuso questo processo per l’articolo 649, perché c’è una violazione palese del ne bis in idem“.


Chi diceva che il processo Trattativa è un unicum non aveva torto: non era mai accaduto che un boss (il più autorevole imputato mafioso dopo la morte di Totò Riina) anticipasse una linea difensiva che, sia pure in riferimento a fatti diversissimi, è la stessa dell’imputato istituzionale più eccellente: la tesi del processo-fotocopia. Né Mori né Bagarella, in verità, sono mai stati accusati in precedenza di violenza al corpo politico dello Stato: l’imputazione contestata nell’aula bunker. Ma per Musco il giudizio sulla Trattativa non è che “una duplicazione” di quello “per la mancata cattura di Provenzano”, concluso nel 2017 con l’ assoluzione del generale dal favoreggiamento aggravato. E poco importa se l’ episodio della fuga di Provenzano nel ’95 è solo un segmento della ricostruzione accusatoria del pool Stato-mafia: il penalista ricorda che “93 testimoni sono gli stessi”. E conclude: “Cambia il capo di imputazione, ma il contenuto è identico: qui c’è un 649 spaccato”.
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Il Fatto quotidiano, 10 febbraio 2018

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