2018, L’ ANNO DELL’ EUROPA

31 Gen 2018

Dieci anni dopo la crisi finanziaria, il 2018 sarà l’anno del balzo in avanti dell’ Europa? Diversi elementi inducono a ritenere che andrà così, ma l’ esito è tutt’altro che scontato. La crisi del 2008, che ha portato alla recessione mondiale più pesante dopo quella del 1929, nasceva dalle debolezze sempre più eclatanti del sistema americano: eccesso di deregolamentazione, esplosione delle disuguaglianze, indebitamento dei più poveri. L’Europa, con il suo modello di sviluppo più egualitario e inclusivo, avrebbe potuto cogliere quell’ occasione per promuovere un sistema di regole migliore per il capitalismo globale. E invece è successo un disastro: senza un’adeguata fiducia fra gli Stati membri, e prigioniera di regole rigide applicate a sproposito, l’Unione Europea nel 2011-13 provocò una nuova recessione, da cui solo ora, a fatica, si sta riprendendo.

L’arrivo al potere di Trump, nel 2017, ha messo a nudo una nuova, evidente falla del modello americano, e questo rilancia la domanda d’Europa, tanto più se si considera che l’evoluzione dei modelli alternativi (Cina, Russia) è tutt’altro che rassicurante.

Per rispondere alle aspettative, tuttavia, l’Europa dovrà superare molteplici sfide. Innanzitutto una sfida generale: la deriva verso la disuguaglianza della globalizzazione. L’Europa non rassicurerà i suoi cittadini spiegando che la situazione qui da noi è migliore che negli Stati Uniti o in Brasile. Le disuguaglianze avanzano in tutti i Paesi, incoraggiate da una concorrenza fiscale esacerbata che favorisce i più mobili, e che l’Europa continua a rinfocolare. I rischi di ripieghi identitari e logiche del capro espiatorio saranno superati solo se si riuscirà a proporre ai ceti popolari e alle giovani generazioni una strategia concreta di riduzione delle disuguaglianze e investimento nel futuro.

La seconda sfida è il divario fra Nord e Sud, che all’interno della zona euro si è drammaticamente allargato, e che fa leva su versioni contraddittorie degli eventi. In Germania e Francia la gente continua a pensare che abbiamo aiutato i greci perché abbiamo prestato loro soldi a un tasso di interesse inferiore a quello che viene praticato a noi sugli stessi mercati. In Grecia la lettura dei fatti è diversa e si mette l’accento sul cospicuo utile finanziario realizzato. In realtà, il salasso imposto all’ Europa del Sud, con conseguenze secessioniste drammatiche in Catalogna, è il risultato diretto di un miope egoismo franco-tedesco.

La terza sfida è il divario fra Est e Ovest. A Parigi, Berlino o Bruxelles non ci si capacita dell’ingratitudine di Paesi che hanno beneficiato di imponenti trasferimenti pubblici. Ma a Varsavia o Praga vedono la questione diversamente, sottolineando che gli investimenti privati sono stati pagati a caro prezzo e i flussi di profitti versati ai proprietari delle imprese superano i trasferimenti europei che viaggiano nell’ altro senso.

In effetti, se si vanno a esaminare i numeri, i Paesi dell’Est non hanno torto. Dopo il crollo del comunismo, gli investitori occidentali (in particolare tedeschi) hanno acquisito la proprietà di parte del capitale dei Paesi dell’ex blocco orientale: circa un quarto, se si considera l’ intero stock di capitale (incluso il settore immobiliare) e più della metà se ci si limita alla proprietà delle imprese (e ancora di più per le grandi imprese). Gli studi di Filip Novokmet hanno dimostrato che la ragione per cui in Europa dell’Est le disuguaglianze sono cresciute meno che in Russia o negli Usa è da addebitarsi al fatto che una grossa fetta degli ingenti redditi prodotti dal capitale esteuropeo finiscono all’ estero.

Tra il 2010 e il 2016, i flussi annui in uscita di profitti e redditi da capitale (al netto dei flussi in entrata corrispondenti) hanno rappresentato in media il 4,7 per cento del Pil in Polonia, il 7,2 per cento in Ungheria, il 7,6 per cento in Repubblica Ceca e il 4,2 per cento in Slovacchia, riducendo in egual misura il reddito nazionale di questi Paesi. Per fare un confronto, nello stesso periodo i trasferimenti annui netti provenienti dall’Unione Europea, vale a dire la differenza fra il totale degli esborsi ricevuti e dei contributi versati al bilancio comunitario, sono stati sensibilmente inferiori: il 2,7 per cento del Pil in Polonia, il 4 per cento in Ungheria, l’ 1,9 per cento in Repubblica Ceca e il 2,2 per cento in Slovacchia.

Certo, si può obiettare che gli investimenti occidentali hanno consentito di accrescere la produttività delle economie in questione e quindi hanno portato benefici a tutti. Ma i dirigenti esteuropei non mancano mai di ricordare che gli investitori abusano della loro posizione di forza per comprimere i salari e mantenere margini di profitto eccessivi.

Esattamente come successo con la Grecia, le potenze economiche dominanti tendono, al contrario, a considerare naturali le disuguaglianze: si parte dal principio che il mercato e la “libera concorrenza” conducono a una ripartizione giusta delle ricchezze e si considerano i trasferimenti realizzati a partire da questo equilibrio ” naturale” come un atto di generosità da parte di quelli che con il sistema ci guadagnano. In realtà, i rapporti di proprietà sono sempre complessi, soprattutto all’ interno di comunità politiche di grandi dimensioni come l’Unione Europea, e la loro regolazione non può essere affidata al buon volere del mercato.

Potremo uscire da queste contraddizioni solo attraverso una rifondazione intellettuale e politica, accompagnata da una reale democratizzazione delle istituzioni europee. Speriamo che il 2018 possa dare un contributo in tal senso.

La Repubblica, 27 gennaio 2018

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