La lista Grasso, una grande occasione perduta

09 Dic 2017

Tomaso Montanari

È successo qualcosa, a Sinistra. Finalmente.

La nascita di “Liberi e uguali” è un sasso nello stagno. E davvero si deve guardare con enorme rispetto alla soddisfazione delle migliaia di compagne e compagni che hanno partecipato all’assemblea di Roma.

E c’è un “però”. Non è possibile non chiedersi se i milioni che a quel processo non hanno partecipato ­– i cittadini di sinistra – saranno altrettanto soddisfatti di questa nascita. Al punto di votare in massa per la nuova lista.

Bisogna farlo con delicatezza, per quanto possibile. Perché in un momento così terribile nessuno ha il diritto di uccidere un entusiasmo, per quanto piccolo o magari mal fondato. E perché, è vero: non abbiamo più voglia di prendere atto di fallimenti e insuccessi. “Non facciamo troppo i difficili”, pensano in molti: “prendiamo quel che si può, e tiriamo avanti”. E poi, nell’Italia di Salvini, Berlusconi, Renzi, quale persona di buon senso e con un cuore normalmente a sinistra potrebbe dare la croce addosso a Civati, Fratoianni, Speranza, o all’ottimo Piero Grasso?

E però. E però non si può tacere. Perché se vogliamo che questa Italia non sia più appunto quella di Salvini, Berlusconi, Renzi, non possiamo continuare a fare quello che si è fatto ieri a Roma: continuare a perdere ogni occasione di svolta.

Perché il succo della vicenda è che tre partiti (due piccoli, uno minuscolo) hanno fatto una lista comune. Hanno costruito un’assemblea dividendosi le quote di delegati. Che sono tutti loro iscritti tranne un piccolissimo numero (meno del 3%, cioè circa 40 sui 1500, cui però si aggiungono altri “interni” al sistema, e cioè quasi 200 membri “di diritto”: parlamentari, assessori, sindaci…). Niente di male: ma questa è la cucitura del vecchio, non c’è niente di nuovo. È un progetto fatto per chi è “dentro” la politica, non è un progetto capace di parlare a chi è fuori. Ed è perfino umiliante che quella “società civile” alla quale non si è voluta cedere sovranità attraverso una partecipazione vera e senza piloti occulti, sia poi stata chiamata a fare da “centrotavola” attraverso dei “testimonial”. Come alla Leopolda, nella peggiore tradizione del marketing politico.

L’aspetto ironico è che poi questi delegati non hanno fatto che “acclamare” un capo deciso altrove: senza nemmeno votarlo. Il Fatto quotidiano l’ha definita una cerimonia: ecco, non era un’assemblea, era una bella cerimonia. E allora perché, ci si chiederà, blindare con tanta ferocia le quote dell’assemblea? Ma perché sarà poi questa stessa assemblea a dover ratificare le decisioni delle tre segreterie sulle candidature e i loro criteri, e cioè sull’unica cosa che venga ritenuta importante.

Ma torniamo alla cerimonia. Nessuna persona di buon senso ce la può avere con Pietro Grasso: anzi, sarà un piacere avere una voce come la sua nella canea dei leaders politici italiani. Ma è fin troppo scoperto il gioco che ha portato Grasso all’incoronazione di ieri: il gioco di un calcolo mediatico (non fatto da lui, sia chiaro: ma su di lui). Un calcolo fatto sui sondaggi. Una scelta di palazzo: ombelicale, priva di fantasia. Senza un grammo della forza che hanno, per esempio, le storie di Pablo Iglesias, Jeremy Corbyn, Alexis Tsipras, Bernie Sanders. E il dettaglio per cui sul simbolo dovrebbe essere scritto “Liberi e uguali per Grasso” suona come una drammatica smentita del nucleo più carico di futuro della Sinistra che ancora non c’è: tutto quello che sta cambiando in meglio il Pianeta è fondato sul “Noi”, non sull’ “Io”, sulla comunità e non sul capo. Per questo, la fotografia dei quattro piccoli capi insieme al grande capo – tutti maschi – della “nuova sinistra” rischia di essere il rovesciamento simbolico di tutto quello che potranno dire.

Il vicedirettore dell’Huffington Post, Alessandro De Angelis, ha detto ieri, a mezzorainpiù, che “ci voleva più cuore”, più coraggio, più radicalismo, più voglia di cambiare: perché così si sta costruendo solo un piccolo “Pd dal volto umano” che non recupererà né i voti degli astenuti, né quelli dei 5 stelle. Lo penso anche io.

E lo penso anche perché ieri il capo è stato acclamato senza un progetto. Senza un programma. Senza aver prima esplicitato quale visione del paese abbia questa nuova forza elettorale. E senza aver chiarito quale rapporto c’è – se c’è – tra quella visione e la scelta del leader.

C’è, è vero, un manifesto di cinque cartelle: che conosco bene perché ho contribuito a scriverlo anche io. Ma proprio per questo so che è solo una sommaria dichiarazione di direzione. E soprattutto so quanta fatica si è dovuta fare per arrivarci. E so che se ieri un vero programma non è stato presentato è perché su molti nodi cruciali non c’è accordo, tra i contraenti.

Un aneddoto, che serve a spiegare cosa intendo. Nella prima versione di un lungo testo che Guglielmo Epifani (incaricato da Mdp della trattativa per quel manifesto) ci propose, si leggeva questa imbarazzante frase:

Vanno eliminate le forme contrattuali più precarie, e i contratti a termine privi di casuale, il lavoro precario deve essere più costoso per l’impresa rispetto a quello stabile, e vanno introdotti elementi di costo aggiuntivi per le imprese che non rinnovino o stabilizzino. i contratti a termine.

Quello stesso giorno, per puro caso, Papa Francesco aveva detto:

Anche il lavoro precario è una ferita aperta per molti lavoratori (…). Precarietà totale: questo è immorale! Questo uccide! Uccide la dignità, uccide la salute, uccide la famiglia, uccide la società. Lavoro in nero e lavoro precario uccidono.

E niente: è tutto qua. La distanza abissale tra il linguaggio del Papa e quello dell’ex segretario della Cgil è la distanza che una nuova Sinistra avrebbe dovuto esser capace di coprire. Non ci riuscimmo allora: chiudemmo su quelle poche pagine, rimandando al dopo un lavoro serio sul programma. Che però avrebbe dovuto esser fatto prima della presentazione della lista: perché altrimenti, di cosa esattamente parliamo? Per non fare che un esempio: cosa pensano Liberi e Uguali della riforma Fornero?

Se non è ancora possibile, a cerimonia conclusa, rispondere a questa e a moltissime analoghe domande è perché Mdp non ha ancora fatto i conti con la storia del centrosinistra. Se tutto si risolve nell’antirenzismo, se a essere profondamente rimessi in discussione sono solo gli ultimi tre anni, e non gli ultimi venticinque, nulla di nuovo potrà nascere. Il problema della presenza dei vari D’Alema e Bersani è tutta qua: nulla di personale, ovviamente. Ma se la loro presenza lì dentro impedisce di dire la verità su quello che proprio loro hanno fatto, se non si ha il coraggio di sconfessare una storia, allora il nuovo non può nascere. Durante una delle nostre discussioni, Epifani, con il suo garbo, mi disse: “Ma allora tu vuoi dire che nulla di quello che abbiamo fatto quando eravamo al governo andava bene?”. Sì, vorrei dire proprio questo. La pagina del centrosinistra alla Tony Blair è una pagina da cui liberarsi. Senza se e senza ma.

E il fatto che il programma non sia ancora uscito, significa che questa liberazione non c’è ancora stata. Se, nelle prossime settimane, Mdp si mangerà Sinistra Italiana sui contenuti, come già se l’è mangiata nei rapporti di forza dell’assemblea, allora il disastro sarà completo.

È questa la principale ragione per cui chi si è riconosciuto nel progetto del Brancaccio ieri non era a Roma: perché quel progetto invocava una radicale discontinuità con i governi del centrosinistra (che hanno sfigurato l’Italia non meno di quelli del centrodestra), una totale democraticità del percorso, una alleanza tra cittadini e partiti, un e un nuovo linguaggio radicale capace di riportare al voto gli astenuti e di contendere i voti non tanto al Pd, quanto ai 5 Stelle.

Nulla di tutto questo c’è, nella “nuova proposta” di Liberi e Uguali.

Certo, molti di noi la voteranno comunque: per mancanza di meglio. Ma è davvero impossibile non dire che questo è l’estremo tentativo di rattoppare il vecchio, non è l’inizio di qualcosa di nuovo.

Per il nuovo bisognerà lavorare ancora molto, duramente e per altre strade. Lo faremo: non c’è altra scelta.

 

 

huffingtonpost.it 4 dicembre 2017

 

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