A chi resta il cerino intercettazioni?

16 Nov 2017

Chi aspettava norme chiare e trancianti dalla riforma delle intercettazioni, è rimasto deluso. Si tratta di una reazione “annunciata”. Da tempo, la privacy nelle comunicazioni è fonte di polemiche tra tifoserie politico-professionali. E nella stessa maggioranza, alimenta visioni conflittuali sulle prerogative della magistratura e sul giornalismo d’inchiesta. Così le ambizioni del governo, delegato dal parlamento a scrivere la nuova legge, non potevano andare oltre un “onorevole compromesso”.

Ciò ha partorito regole contorte. Che nel complesso, però, esprimono la “pressione” per un self-restraint di magistrati, avvocati e stampa, ancora da decifrare.
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La riforma, quindi, è destinata a una delicata fase di rodaggio. Con possibili sorprese sulla futura fisionomia dei rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, sul ruolo della difesa e del giudice.
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Lo “scudo di segretezza” per le conversazioni processualmente irrilevanti propone un intreccio di questioni “sensibili”. C’è un divieto di trascrivere anche sommariamente i colloqui, con l’inserimento delle relative registrazioni (estranee al procedimento) in una “cassaforte” (archivio) della procura. Ma il primo “filtro” sulle “intercettazioni inutili” spetta alla polizia giudiziaria in ascolto. Che, per prevenire fughe di notizie, potrà annotare nel relativo verbale solo data, ora e dispositivo della registrazione. Dunque, non ci saranno più i cosiddetti “brogliacci”, con brani per esteso, che sovente finivano sui giornali o in tv.
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Ma così, soprattutto quando si indaga su trame criminali pervasive e complesse, alla polizia giudiziaria si consegna un potere enorme. Un potere che, peraltro, si salda con il dovere dei poliziotti di riferire delle indagini alla scala gerarchica, direttamente dipendente dall’esecutivo, secondo una norma introdotta nell’estate del 2016.
Come evitare, allora, che certe “esclusioni” disperdano, nel “mare” delle registrazioni custodite nella cassaforte segreta, dati utili per accusa o difesa? E che la polizia giudiziaria diventi “motore” delle indagini, secondo logiche pre-costituzionali da codice Rocco? Decisivo sarà lo step successivo. Ossia il controllo del pubblico ministero su “tutti” i colloqui captati, anche quelli ritenuti inutili. Sarà effettivo solo se la polizia garantirà una interlocuzione tempestiva, completa e costante.
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Certo, non basteranno informazioni scarne e frammentarie. Aumenterebbe il rischio di perdere irrimediabilmente dati che, solo a posteriori, si rivelino preziosi; ad esempio per collegare una rete di corrotti o di una associazione criminale; o per rafforzare l’alibi di un indagato. Ma, sulle modalità e sui contenuti di quella informazione, la riforma appare ambigua. E il “cerino” della soluzione è destinato a finire nelle mani dei procuratori della Repubblica.
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Con apposite circolari o direttive, si potrebbero richiedere alla polizia giudiziaria “appunti a esclusivo uso interno”.
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Quelle “tracce scritte” (meno ricche dei “brogliacci”), da inserire anche nell’archivio segreto, dovrebbero permettere di “mappare” agilmente ore e ore di registrazioni. E, quindi, di effettuare, in tempi brevi, quei collegamenti tra i colloqui inizialmente considerati inutili e la miriade di dati disponibili (talvolta raccolti da diversi corpi di polizia). Ciò vale in prima battuta per l’accusa. E poi vale pure per la difesa che, solo così, potrà produrli tempestivamente per chiedere una scarcerazione o una assoluzione. Ma sarà possibile, per i procuratori, emanare circolari senza correre il rischio di violare la legge? Quale estensione potranno avere quelle tracce scritte? E certe ambiguità normative non potrebbero forse alimentare prudenze eccessive?.
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Le incertezze della riforma non finiscono qui. Coinvolgono pure il ruolo del giudice e il modo di spiegare le sue decisioni. Per “blindare” la segretezza dei colloqui inutili, si prevede il divieto di riprodurre negli atti i “brani non essenziali”. Scontato. Il codice già vuole la motivazione “concisa” e “specifica”. Quale è, allora, il senso della novità? Una minaccia dai risvolti disciplinari per indurre al self-restraint? O solo un appello simbolico al senso di responsabilità?
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Sta di fatto che la “fumosità” delle nuove regole potrebbe indurre a motivazioni incomplete, o timide nella esposizione, per evitare varie forme di censura. Così, dopo la “medicina difensiva”, avremmo la “giurisprudenza difensiva”. Con il risultato di rendere più difficile il controllo sulle decisioni.
Insomma, professionalità e senso di responsabilità degli attori del processo ci diranno se la riforma delle intercettazioni implichi dei costi alti per la ricerca della verità e la credibilità dei verdetti giudiziari. Ma forse il legislatore ha ancora qualche spazio per supplementi di riflessione. Anche la chiarezza della legge può migliorare la qualità della giustizia che verrà.
Il Fatto Quotidiano, 15 nov, 2017 

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