L’attualità dirompente di don Milani

30 Ott 2017

Tomaso Montanari

Anna Falcone ed io siamo davvero molto spiacenti di non poter essere oggi a Milano.

Entrambi siamo personalmente molto legati alla figura profetica di don Lorenzo, e crediamo che oggi la sua lezione sia in drammatico contrasto con la direzione impressa alla scuola italiana, per esempio dalla cosiddetta ‘Buona scuola’.

La cultura umanistica è un’altra cosa: è la capacità di elaborare una critica del presente, di avere una visione del futuro e di forgiarsi gli strumenti per costruirlo.

Chi l’ha capito meglio di tutti nella storia dell’Italia repubblicana è stato proprio don Lorenzo Milani. Per chi, come me, è cristiano, la persona, le parole e l’opera di Milani sono soprattutto una imitazione straordinariamente aderente della persona e dell’opera di Gesù (proprio nel senso, antico e altissimo, dell’imitatio Christi). Immagino che qualcosa di simile provassero gli italiani del primo Duecento vedendo Francesco d’Assisi: un altro Cristo sulle strade del mondo. Per tutti gli altri, Milani – e soprattutto il Milani di Lettera a una professoressa e della Scuola di Barbiana – rappresenta soprattutto un modello di scuola possibile.

Un modello ben noto, di cui mi limito qua a richiamare due punti essenziali: il metodo e il fine ultimo.

Il simbolo del metodo di Barbiana è ancora lì, ed è assai tangibile: il grande tavolone di legno fatto dagli stessi scolari, anzi dai ‘ragazzi’. Didattica senza banchi, tutti intorno ad un tavolo. Le radici di questo approccio vanno cercate altrove, e cioè nella cultura altissima e nella consuetudine con la pratica accademica che don Lorenzo aveva respirato in famiglia: suo nonno era il grande numismatico Luigi Adriano Milani, il suo bisnonno il celebre filologo Domenico Comparetti. Ad aiutarlo, poi, ad orientarsi nella formazione, e ad esaminarlo circa la serietà del suo orientamento verso la conversione al cristianesimo e al sacerdozio fu Giorgio Pasquali, massimo filologo classico italiano del Novecento. È grazie a questa formazione che Milani cresce come un umanista, esattamente nel senso che Erwin Panofsky fissa in questa formula: «uno che nega l’autorità, ma rispetta la tradizione».

E il metodo di Barbiana non è altro che il metodo del seminario scientifico – consueto per la cultura accademica tedesca, e praticato per esempio da Pasquali e dai suoi allievi – per cui tutti gli studenti, anche le matricole, si siedono alla pari intorno ad un tavolo e lavorano insieme su un testo, e sotto la guida, incalzante e maieutica, dell’insegnante.

Se questo era il metodo, sul fine della Scuola di Barbiana don Milani non lascia alcun dubbio: è una scuola lontana mille miglia dalla retorica neoliberista della meritocrazia («Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose» e «Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali»), una scuola che punta all’alfabetizzazione di tutti («La parola è la chiave fatata che apre ogni porta»), una scuola che non mira alla creazione di una nuova classe dirigente, ma di una massa cosciente. Una scuola il cui fine ultimo è la formazione del cittadino sovrano di domani.

Metodo umanistico della critica storica e abilitazione all’esercizio della sovranità e della cittadinanza: non conosco una via più radicale di quella di Barbiana per l’attuazione del primo comma dell’articolo 9 della Costituzione, per cui «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca», intimamente legato all’articolo 1 secondo comma («La sovranità appartiene al popolo») e all’articolo 3, secondo comma («È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»).

La Buona Scuola, o la Scuola di Barbiana? Un bivio decisivo e drammatico. Due idee opposte di scuola, due idee opposte di società, due idee opposte del futuro della democrazia.

Con ogni augurio di buon lavoro.

(*) Pubblichiamo il contributo del presidente di LeG al convegno che si è tenuto alla Camera del Lavoro di Milano lo scorso 27 ottobre.

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