La maschera fascista d’Europa

18 Ott 2017

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Dopo le elezioni tedesche, anche quelle austriache confermano le trasformazioni politiche in corso nel vecchio continente, la cui faccia sta decisamente prendendo una fisionomia di destra, e perfino nazi-fascista. Il populismo è lo stile e la strategia che le vecchie idee di destra (il razzismo, l’intolleranza, l’ideologia identitaria nazionalista, il mito maggioritarista e anti-egualitario) adottano per conquistare gli elettori moderati. I partiti di destra sono quelli che meglio usano questa strategia; ne hanno anzi bisogno per uscire dall’isolamento nel quale l’ideologia socialdemocratica li aveva condannati per decenni.Sebastian Kurz, alla guida del partito dei popolari, ha trasformato il suo partito in un movimento elastico, aggressivo sui social, attento all’immagine e capace di usare gli argomenti giusti: la paura dell’immigrazione, la preoccupazione per la precarietà occupazionale, l’erosione del benessere.

L’Austria è tra i Paesi più ricchi d’Europa e con una popolazione residente straniera che sfiora il 15%. La campagna elettorale di Kurz è stata radicalmente personalistica (il suo nome ha dato il nome alla lista) e ossessivamente imbastita sulla paura, tanto da fare apparire l’Austria come un Paese straniero agli austriaci, sul baratro economico e con il rischio di avere una maggioranza religiosa islamica. La personalizzazione e la radicalizzazione del messaggio hanno fatto volare il suo partito. Altrettanto vincente la strategia del partito di estrema destra neo-nazista, detto della libertà, guidato da Heinz-Christian Strache che potrebbe essere alleato del partito di Kurz.

La ricetta per il governo del Paese di questa ipotetica coalizione è un misto di protezionismo e liberismo: chiusura delle frontiere agli immigrati, difesa dell’identità culturale cattolica, sicurezza e taglio delle tasse. Liberisti e nazionalisti alleati. Il restyling dei due partiti di destra ha pagato, smussando il messaggio nazista e islamofobico e insistendo su una strategia che da qualche anno sta facendo proseliti a destra.

La critica alla tecnocrazia di Bruxelles non porta più alla proposta di uscire dall’Unione. L’Europa va conquistata, non lasciata. Il populismo transnazionale di destra non propone il ritorno agli stati nazionali indipendenti, non ha nostalgie per un’Europa pre-Trattato di Roma. Comprende l’utilità dell’Unione e vuole però guidarla in conformità a quella che il leader ungherese Viktor Orbán (il primo ad aver lanciato la proposta di una destra populista transnazionale) ha definito come l’identità spirituale del continente: la cristianità. La secolarizzazione, soprattutto nella parte occidentale del continente, è un fatto difficilmente negabile. E quindi l’appello alla cristianità ha poco a che fare con la spiritualità religiosa e molto con l’identità nazionale. Il populismo di destra è oggi un progetto identitario transnazionale.

La storia del populismo è innestata nella storia della democrazia; una competizione con la democrazia costituzionale sulla rappresentanza e la rappresentazione del popolo, che nei Paesi europei è in effetti la nazione. La tendenza a identificare il popolo con un’entità organica omogenea è il motore che muove questa potente interpretazione della sovranità come sovranità di una parte, maggioritaria, contro un’altra, per umiliare l’opposizione e soprattutto le minoranze culturali.

Le democrazie del dopoguerra hanno neutralizzato questa tendenza olistica articolando la cittadinanza nei partiti politici. E il dualismo destra/sinistra è stato un baluardo di protezione della battaglia politica dalle pulsioni identitarie, nazionaliste e fasciste. La fine di questa distinzione è oggi il problema; essa è stata favorita dalla sinistra stessa che, nel solco del blarismo ha sostenuto la desiderabilità di andare oltre la divisione destra/sinistra. Una iattura che ha preparato il terreno alla destra.

L’uso di strategie comunicative populiste si dimostra vincente anche perché l’audience è informe e con deboli distinzioni idelogiche; facile da conquistare con messaggi generici, gentisti diremmo, ovvero basati sul buon senso e capaci di arrivare a tutti indistintamente. La caduta di partecipazione elettorale, che l’erosione della distinzione destra/ sinistra ha portato con sé, è un segnale preoccupante di cui purtroppo quel che resta della sinistra non si avvede. L’esercito elettorale di riserva è pronto, depoliticizzato abbastanza da essere catturato da messaggi populisti di destra, generici, e molto semplici.

Il caso austriaco, come quello tedesco di poche settimane fa, è quasi da manuale nel dimostrare quanto danno abbia fatto alla democrazia la convinzione che destra e sinistra appartengano al passato. Di questa insana idea si approfitta la destra, che da parte sua non ha mai messo quella distinzione in soffitta.

 

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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