Perché la questione catalana riguarda tutti

07 Ott 2017

“La nostra non è una rivendicazione meramente nazionalista, stiamo reclamando più democrazia in Spagna. Questa vicenda riguarda tutti, non soltanto i catalani”. Mercè Barceló, professoressa di Diritto Costituzionale all’Università Autonoma di Barcellona, spiega le ragioni del referendum e della questione catalana, all’indomani delle violenze del governo spagnolo “davanti agli occhi del mondo” (come ha detto la sindaca Ada Colau). Sabato 7 e domenica 8 ottobre parteciperà alla prima conferenza dei giuristi del Mediterraneo organizzata dai Giuristi Democratici a Napoli presso l’Ex Asilo Filangieri e nel Complesso San Domenico Maggiore.

 

Il governatore catalano Carles Puigdemont ha dichiarato di sentirsi “il presidente di un Paese libero”. Quali erano le ragioni profonde dell’oppressione che la Catalogna sentiva da parte del governo spagnolo, prima delle violenze di domenica?

La Catalogna divenne parte del nascituro Stato spagnolo nel 1714, dopo un’invasione militare delle truppe borboniche. Il nuovo regime proibì da subito l’uso della lingua catalana e soppresse tutte le istituzioni locali. Nel corso degli ultimi 300 anni la Catalogna ha cercato di sopravvivere come comunità provando a sperimentare varie esperienze di autogoverno. La più recente si manifestò durante la Seconda Repubblica ma, com’è noto, il Paese precipitò in una guerra civile. Il ripristino della democrazia, nel 1978, dopo la caduta del generale Franco, contemplava un patto tra lo Stato centrale e la Catalogna per trovare una forma che garantisse un’autonomia locale. Tuttavia, il modello dello “Stato autonomo” fu esteso a tutte le Regioni iberiche, così da tramutare quel che inizialmente doveva essere potere politico per i territori in mero potere amministrativo. La riforma dello Statuto di autonomia del 2006 doveva far ritornare la situazione al patto costituzionale originario, in modo che la Catalogna recuperasse uno status speciale all’interno delle varie Regioni autonome (il cosiddetto “federalismo asimmetrico”) e venisse riconosciuta come soggetto politico. Questa riforma, concordata tra il Parlamento catalano e quello spagnolo e confermata da un referendum popolare confermativo in Catalogna, fu annientata dalla Corte Costituzionale. Da quel momento, nel Parlamento catalano il movimento indipendentista è passato dall’essere una forza di minoranza (intorno al 20%) ad avere la maggioranza assoluta dei seggi. E, alla consultazione di domenica, i cittadini hanno confermato col 90% dei voti di volere l’indipendenza da Madrid.

Lei è docente di Diritto Costituzionale, scusi cosa rendeva legittimo sul piano giuridico il referendum se, invece, la Costituzione spagnola non lo prevedeva?

La Costituzione spagnola, come ogni altra Costituzione democratica, dà la possibilità di convocare un referendum popolare pattuito con lo Stato centrale. Certo, la Costituzione riconosce il principio dell’unità ma la democrazia spagnola, in accordo con la sua configurazione costituzionale, non rende impossibile la difesa dei fini contrari a essa; non condanna ideologie diverse dalla sua; non è una democrazia dalla quale si generi un “metadiritto naturale e fondamentale” d’autodifesa dello Stato che si converta in parametro di riferimento per la validità e l’interpretazione dei diritti individuali e collettivi, e che s’imponga gerarchicamente sopra di essi. Al contrario, lungi da questo concetto di “democrazia militante” o di “democrazia protetta”, la Costituzione spagnola stabilisce una democrazia plurale e pluralista, non tutelata. Quindi non esclude dalla legalità soggetti o gruppi che hanno un’idea del Diritto o dell’organizzazione sociale differente o in contrapposizione con la stessa Costituzione. Di conseguenza ci si deve chiedere: perché mai sarebbe incostituzionale esprimere collettivamente una volontà contraria al mantenimento della unità dello Stato spagnolo, se la stessa Costituzione non impone alcuna adesione al principio di unità?. In che modo mai la celebrazione di una consultazione referendaria da parte dei cittadini catalani riguardo al loro futuro come comunità politica può attentare al principio democratico o ai diritti fondamentali, se precisamente l’espressione attraverso una consultazione è tutelata dal principio democratico ed è esercizio dei diritti fondamentali già riconosciuti dalla stessa Costituzione? A meno che non si sostenga apertamente che la Costituzione spagnola instaura una democrazia militante – cosa piuttosto difficile da dimostrare, testo della Costituzione alla mano e tenendo conto della giurisprudenza al riguardo- non si può affermare in modo fondato che è incostituzionale la pretesa di celebrare una consultazione popolare in Catalogna, nella quale venga richiesto il parere circa la propria indipendenza territoriale.

Ha votato il 42% dei cittadini catalani, perché gli altri non sono andati?

La percentuale arriva al 55% se si aggiungono i 770.000 voti che la polizia spagnola ha sequestrato durante lo spoglio. Chi invece ha scelto di non recarsi al seggio, l’ha fatto per paura della repressione o perché non riconosceva la validità del referendum.

Se non ci fosse stato Rajoy al Governo e se ci fosse stato un governo progressista, crede che si sarebbe arrivati ugualmente al referendum? Come sarebbero andate le cose?

Non lo so, di certo sia il PSOE che il PP stanno sposando la stessa politica rifiutando di dialogare con la Catalogna. Solo Podemos si è distinta finora parlando di autodeterminazione dei cittadini catalani e riconoscendo il diritto della Catalogna a decidere sul proprio futuro tramite un referendum popolare.

Cosa ne pensa del Manifesto di Saragozza, è una politica iniziativa che può portare ad un’alternativa al governo Rajoy?

Ne condivido molti aspetti, ma ormai è fuori tempo massimo.

Quali sono le responsabilità dell’Europa rispetto alla crisi spagnola-catalana? E quali delle istituzioni europee, in particolare, doveva intervenire per prima?

Ritengo che l’Europa abbia piena responsabilità di quel che sta avvenendo, soprattutto per l’art 2 in vigore che recita: «L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze».
Secondo me, l’Europa deve far sedere al tavolo dei negoziati lo Stato spagnolo, soprattutto in questi giorni dopo aver visto violati i diritti fondamentali di molti catalani – libertà di espressione, di comunicazione, di domicilio, integrità fisica e morale – e dopo che le istituzioni hanno dimenticato nelle loro azioni i principi basilari dello Stato di diritto. E quello che i catalani chiedono è assolutamente una questione democratica: votare, proporre, negoziare.

Parliamo di denaro. La Catalogna è di certo la regione più ricca della Spagna ma non può fare a meno dell’Europa e della banche. I catalani non hanno paura delle ripercussioni che si possono abbattere sull’economia interna da parte della finanza?

Assolutamente, ci sono importanti studi che dimostrano come la nostra economia crescerà con l’indipendenza. Il problema, al massimo, sarà per la Spagna che perderà il 20% del proprio PIL.

Lei crede che Puigdemont sia ancora il giusto uomo per accompagnare la transizione catalana verso una fase di necessarie mediazioni?

Perché no? Il presidente Puigdemont si è dimostrato una persona dialogante e onesta, nel senso che non ha mai chiuso alla negoziazione con Madrid e ha centrato il suo intero programma su questo. Tuttavia, in questi processi collettivi nessuno è indispensabile e lui ne è consapevole.

Torno su questo perché credo sia molto importante far capire, soprattutto all’estero, un punto: cosa vogliono i catalani e cosa stanno dicendo al mondo?

Chiedono semplicemente di decidere sul proprio futuro, come comunità politica, e lo vogliono fare in modo democratico tramite un referendum. Questa rivendicazione non riguarda soltanto noi catalani ma tutti i cittadini, spagnoli ed europei, perché la nostra è una richiesta di maggiore democrazia.

La Corte Costituzionale spagnola ha sospeso la sessione plenaria del Parlamento catalano prevista per lunedì, che avrebbe potuto dichiarare l’indipendenza. Cosa accade ora?

La sospensione è sorprendente da un punto di vista giuridico dato che non esisteva l’atto formale di convocazione: si sospende quindi un atto inesistente giuridicamente. Penso che verrà convocata un’altra plenaria con un altro ordine del giorno e che in questa sede due gruppi parlamentari – come permette il Regolamento del Parlamento – solleciteranno l’inclusione del punto in questione ora sospeso.

In queste ore la finanza sembra avere molto più potere della politica nel progetto di tenuta dell’unione della Spagna, cosa ne pensa?

Tutto ciò fa parte del marketing della “paura” e non ha nessun effetto reale sull’economia. Finché la Catalogna non è indipendente il semplice cambio di sede legale (che è quello approvato per ora dal Banco de Sabadell) non influenza la situazione attuale perché già oggi le tasse che le banche devono pagare vengono pagate direttamente all’agenzia tributaria spagnola. E in una ipotetica Catalogna indipendente, se queste banche avessero la loro sede sociale in Spagna sarebbero comunque obbligate a stabilire il loro domicilio fiscale in Catalogna in quanto paese straniero, nel quale pagherebbero così le tasse dei profitti generati. In definitiva io credo che nei prossimi giorni si produrrà un fenomeno già avvenuto intorno al 9 novembre 2014 [data del processo partecipativo sul futuro politico della Catalogna, a volte indicato come referendum di autodeterminazione in Catalogna]: anche allora queste stesse banche minacciarono un cambio di sede legale ma il ritiro dei depositi bancari da parte dei catalani fu considerevole.

MicroMega online, 5 Ottobre 2017

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