LA TRAGEDIA DEL POPULISMO AL POTERE

10 Ago 2017

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Quel che sta accadendo in Venezuela è il segno di un populismo che ha fallito o del populismo punto e basta? La questione non è retorica se si pensa che in Europa il populismo è stato in questi ultimi anni sdoganato anche a sinistra (tradizionalmente la diga più solida contro il populismo) con il chavismo come levatrice.

Nel termine populismo sono contenuti tre significati: promuovere politiche a favore del popolo; sbancare una classe dirigente impermeabile alle richieste popolari; usare il sostegno popolare per lanciare una nuova classe politica. Nell’ esperienza di questi ultimi venticinque anni, il Venezuela è stato testimone a tutto tondo del populismo al potere. Hugo Chávez, prima per via militare poi con elezioni plebiscitarie e assemblee costituenti, ha mobilitato le masse più diseredate intorno alla propria figura contro l’ establishment politico, sociale ed economico; ha promosso (e in parte attuato) politiche di aiuto alle famiglie povere e nazionalizzato la prima e unica fonte di ricchezza del paese, l’ estrazione petrolifera (sfidando il gigante-nemico americano); ha infine attuato varie riforme costituzionali che non hanno però instaurato forme orizzontali di controllo ma abolito la stampa indipendente e cambiato il rapporto tra le istituzioni subordinandole tutte al potere esecutivo; in sostanza creando le condizioni per un nuovo establishment autoritario. Il suo carisma ha coperto i fallimenti delle sue politiche economiche e mantenuto il consenso (con l’ aiuto di una propaganda televisiva quotidiana). La sua scomparsa ha riaperto il conflitto in tutta la sua crudezza.

Il chavismo é diventato il modello di un populismo di sinistra, opposto a quello di destra, identificato con il regime ungherese nazionalista. Chávez e Orbán: i simboli di due populismi, e la risposta da due prospettive diverse della crisi delle democrazie rappresentative e dell’ economia privatistica che hanno abbracciato acriticamente. La campagna elettorale francese di Mélanchon, e ancora prima, la costituzione in Spagna del partito Podemos di Iglesias, si sono allacciate più o meno direttamente al chavismo come idea di un populismo sostitutivo degli agonizzanti partiti della sinistra tradizionale.

Il populismo è un termine ambiguo abbastanza da avere un’ elasticità adattabile alle circostanze socio-economiche e culturali le più diverse. Ha però alcuni elementi riconoscibili comuni che sono molto discutibili e preoccupanti: é impaziente con le norme costituzionali, il pluripartitismo e l’ idea di diritti come condizione di libertà di ciascuno, non di qualcuno o di alcune parti della popolazione in particolare. È la relazione con il diritto e con la democrazia la questione che deve interessare quando si voglia giudicare il populismo, anche perché questo non è un regime politico autonomo ma un sistema che si sviluppa all’interno della democrazia, trasformandone le istituzioni e le procedure, a partire dai suoi fondamenti: il popolo e il principio di maggioranza. Con il populismo, il popolo viene a perdere il significato di generalità (erga omnes) per essere identificato con una parte (ad personam), ovvero il largo numero che sta fuori del Palazzo e che, per questo, è a priori dichiarato come il migliore; infine, la maggioranza viene a perdere la connotazione di regola del gioco politico per essere associata al potere di una parte.

Il populismo consiste insomma in una reificazione delle condizioni formali di legittimità: se la parte che tiene lo Stato è la maggioranza le regole sono legittime; se è una minoranza, allora sono illegittime. La distinzione come si intuisce è sofistica perché a governare è comunque una minoranza. Evidentemente, allora, la questione sta nella rappresentanza della legittimità popolare che il populismo costruisce. La sua sfida diretta è infatti alla democrazia rappresentativa, che è costituzionale e pluripartitica, una sfida radicale perché il populismo impone una rappresentanza del popolo che è a priori divisiva ed include solo quella parte che non è establishment. Le promesse di inclusione (su cui il populismo di sinistra si concentra) sono attuate con politiche di esclusione (delle minoranze). Lo schema è simile a quello del repubblicanesimo classico, ma con l’ esito di rompere l’unità di Populus e Senatus, per identificare la sovranità solo con una parte, la cui voce ha bisogno di un leader che la impersoni per vincere contro l’ altra. Il risultato di questa politica si fa devastante quando da movimento di opposizione il populismo diventa forza di governo, perché in questo caso per realizzare i suoi piani di parte deve togliere il “velo” di imparzialità alle istituzioni e dare il potere direttamente e solo ad una parte contro l’altra.

Nonostante le sue promesse di emancipazione sociale e di aiuto ai diseredati, come è stato il chavismo, il populismo di sinistra non si distanzia dal populismo di destra nel modo di concepire e usare il potere politico: un modo che è autoritario perché fondato sul plebiscito del leader, la subordinazione del rispetto dei diritti all’alleanza politica di chi li rivendica (le minoranze sono i nemici del popolo), e infine la costruzione di un sistema senza controlli perché negatore di ogni livello di imparzialità e autonomia dei poteri dello Stato.

Infine: sappiamo che la prova del nove della legittimità di un sistema politico sta nel saper regolare la successione al potere: in questo consiste il successo della dialettica elettorale maggioranza/minoranza. Ma i governi populisti, proprio perché sono identificati con il leader e con una parte del popolo, non sanno gestire la successione. Scomparso il leader carismatico, tutto il potere si mostra nella sua cruda violenza di una parte contro l’altra. La successione apre alla guerra civile.

Qui sta la tragedia del Venezuela.

la Repubblica, 7 Agosto 2017

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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