Se la sinistra batte in ritirata

01 Ago 2017

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Il fascismo è una radice sempre viva, alimentata dalle emozioni che serpeggiano nel popolo democratico: quelle della paura, del risentimento, della disillusione. Paura di vedere eroso il proprio benessere (già incerto per i numerosi tagli alla spesa pubblica che hanno colpito i comuni per primi); risentimento per il diverso e chi non è in grado di fermarlo; disillusione per la mancanza di potere che i cittadini avvertono. Oggi tutto questo genera fascismo, un fascismo interno alla democrazia. I fascisti di CasaPound (che hanno interrotto il consiglio comunale di Milano) e i loro vicini di bottega, i leghisti di Matteo Salvini, hanno un obiettivo polemico specifico negli africani rifugiati e immigrati. Non è tanto l’immigrazione il loro nemico, ma una specifica immigrazione, quella che ha un colore nero o bruno. La razza, parola che ci riporta agli anni ’20 e ’30 del Novecento, è la linfa dell’ideologia fascista; oggi con più facilità di ieri, poiché la razza, l’altra razza per eccellenza, è già qui. Se i colonizzatori andavano a conquistare l’Africa e riconfermavano la loro anima razzista, oggi è l’Africa a venire nei Paesi degli ex-colonizzatori.

E questa volta, contrariamente ad allora, è molto probabile che il razzismo colpiscatutti, anche i non fascisti dichiarati o votanti, tutti uniti nella paura dell’“invasione”. L’ideologia fascista questa volta rischia di permeare il corpo politico alla radice. È questo che deve far preoccupare tutti noi, cittadini e rappresentati delle istituzioni, politici e giornalisti. Una prova di quanto dico viene proprio dalle regioni rosse, in particolare l’Emilia Romagna, il modello di governo democratico progressista, fondato su valori inclusivi e di eguaglianza. A guardare i dati delle ultime elezioni amministrative vi è di che essere preoccupati. Due fenomeni si sono registrati, che vanno sempre più a braccetto: l’astensionismo e il voto di destra. Anzi, la sterzata a destra emerge proprio qualora la si legga insieme al calo pauroso dei votanti.

La sinistra sta a casa; alle urne vanno quasisolo coloro che alimentano la cultura di destra. Secondo l’istituto Cattaneo nelle regioni ex-rosse, Toscana ed Emilia-Romagna, vi è stato un calo di votanti in media, di 7,1 punti percentuali rispetto alle comunali immediatamente precedenti, «un dato superiore rispetto a quello registrato in tutti i comuni italiani”. Tra le due regioni, quella che ha registrato un calo maggiore è l’Emilia-Romagna (-9,5 per cento), che continua il “robusto” trend negativo iniziato con le amministrative del 2016, quando i due terzi degli aventi diritto non si recarono alle urne. Il Partito democratico non ha mostrato preoccupazione – al segretario del Pd, il non voto interessa meno del voto. Il «minimalismo democratico» tuttavia non fa bene neppure a lui, neppure a coloro che si interessano solo dei voti da contare. Il fatto è che questi democratici della conta dei voti non sanno dare ai cittadini (e sempre di più neppure ai loro tradizionali seguaci) una buona ragione per votare: finita la ragione identitaria partitica, la massima di votare turandosi il naso non tiene più. E quindi chi non riesce a votare indifferentemente, sta a casa. E lascia libero campo a chi ha ragioni sufficienti per recarsi al seggio.

E passiamo così agli esiti dei voti contati. Ci dice l’istituto Cattaneo: «Va sottolineata la tendenza significativa e preoccupante dell’Emilia Romagna: se un tempo poteva essere descritta come un modello di civismo e un serbatoio di capitale sociale, oggi questa immagine sembra essere del tutto inadeguata». Un modello di civismo significa le due cose insieme: partecipazione al voto e voto alle forze progressiste democratiche. Questa catena si è spezzata. In quasi tutti i comuni emiliano-romagnoli in cui si è votato nel 2017, le forze progressiste hanno perso: da Piacenza a Riccione, da Comacchio a Sassuolo. Una slavina che ha trascinato giù fino a valle lo “zoccolo duro” proverbiale. A vincere sono state le coalizioni di centro-destra ma, soprattutto, le liste civiche, «un soggetto politico dai contorni ancora incerti ma in forte ascesa, a livello locale», secondo il Cattaneo.

Queste liste hanno attirato all’origine il voto di molti ex (Pd, M5s e di formazioni di sinistra): ecco la leva delle liste civiche nella regione rossa; una leva che non fa resuscitare però i valori progressisti. Che cosa vogliono le liste civiche? Alcune cose chiare: amore del territorio, che significa non tanto interrompere l’aggressione del cemento ma in primis chiusura all’accoglienza degli immigrati: amore quindi di chi vive sul territorio e volontà di vivere tra identici; difesa dei servizi sociali ovvero contestazione del modo come vengono fatte, per esempio, le assegnazione degli alloggi nelle case dell’Istituto autonomo case popolari, l’Icap (con gli attuali criteri vincono gli emigrati che hanno famiglie più numerosi degli italiani) dei posti negli asili nido e di come vengono spese le poche risorse per le famiglie in difficoltà economica.

Lo stato sociale e l’identità etnica sono fatte marciare insieme – le passioni identitarie e xenofobe sono legale a filo doppio con il declino delle politiche redistributive universali: la coperta è più piccola e se si deve scegliere chi coprire, al primo posto non ci può essere il bisogno e basta, ma ci deve essere il bisogno degli italiani. Le politiche sociali nei tempi di crisi si tingono di colori identitari. Questo è il succo della ragione per cui le regioni rosse sono più delle altre permeabili alla destra e perfino al fascismo razzista e xenofobo: perché la cultura democratica di queste regioni è incardinata sullo stato sociale universalistico, abbandonato il quale la scelta di distribuire diventa una porta aperta alla discriminazione, se tra i bisognosi ci sono sia italiani che immigrati (di colore in particolare). Allora il bisogno-e-basta non funziona più: il bisogno deve avere una ragione supplementare; non può essere semplicemente associato all’umanità. La distribuzione delle poche risorse viene rivendicata su basi razziali e identitarie: questa è la porta al fascismo. Lo smantellamento dello Stato sociale è alla radice dei due fenomeni concomitanti in questione: l’astensione e il voto a destra. L’astensione è la protesta silenziosa contro quel che è oggi diventata la sinistra. Il voto a destra è la traduzione di uno stato sociale che per necessità non può dare a tutti ma deve scegliere a chi dare, e allora l’identità nazionale rivendica priorità.

La lista civica rappresenta la cartina di tornasole della nuova destra: che nasce sul disagio dei cittadini democratici, che si appella al bisogno di solidarietà e identità comunitaria che un tempo la sinistra sapeva convogliare verso obiettivi positivi e universalistici, anche perché vi erano risorse pubbliche sufficienti. Erose le quali, è la destra che si fa forte perché ha nel suo bagaglio gli argomenti adatti al tempo delle ristrettezze: la discriminazione nazionalista. Privilegiare gli italiani contro tutti gli altri a dispetto dell’eguale bisogno, è qualcosa che la destra sa tradizionalmente fare meglio della sinistra. Ed ecco la divisione del lavoro politico nelle regioni ex-rosse: la sinistra si astiene, la destra si apre il varco del governo. Una coda: questa nuova destra si impone in una società che ha una storia democratica decennale, una storia di diritti umani e di universalismo dei diritti, una storia che è andata fiera di aver coniugato la cultura liberale (dei diritti civili) con la sensibilità per le politiche sociali, che ha radicato la libertà sulla giustizia. E che ha fatto questo rendendo i cittadini protagonisti: associandoli nelle varie realtà locali e civili, dallo sport alla cooperativa di consumo, dalla casa del popolo ai sindacati, dalle associazioni femminili e giovanili alle biblioteche locali. La politica sociale della sinistra era politica emancipatrice e di partecipazione politica: non voleva che la cittadinanza si riducesse al voto e formava le conoscenze coinvolgendo nelle istituzioni e nell’amministrazione della città.

La sinistra in Emilia-Romagna ha avuto una funzione democratica “non minimalista”, facendo di lavoratori ed artigiani degli ottimi amministratori, portando lavoratori e contadini sui banchi dei consigli comunali, quando i consigli contavano per davvero perché il municipio non era come un’azienda nella quale chi conta è l’amministratore delegato e il suo consiglio di amministrazione. La svolta a destra non viene dal caso e non ci è piovuta addosso per volere degli dei. È l’esito delle cosiddette riforme nel nome dell’efficienza e per abbattere i costi della politica, per favore la governabilità. L’elezione diretta del Sindaco ha cambiato il modo d’essere della politica, e disincentivato la larga partecipazione e la struttura partecipativa del partito, che diventa per necessità una macchina per individuare il cavallo sul quale puntare tutto. Il resto conta poco o nulla; i consigli comunali contano poco, e con essi i quartieri, e le associazioni sul territorio. Alla fine a contare poco sono i cittadini. Che si astengono o si volgono verso quella parte che sa gestire la loro rabbia, il loro risentimento, la loro disillusione.

La partecipazione dei democratici è diventata irrilevante, l’altra no.

Left, 22 Luglio 2017

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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