Bersani salvaci tu

07 Lug 2017

Marco Travaglio

Non si capisce cosa sia questa spasmodica ricerca di un leader della sinistra, cioè di quell’ammasso informe di sigle e siglette rissose e cacofoniche, dai nomi improbabili e impronunciabili, che orbitano alla sinistra di Renzi. Sono così impegnate a litigare, a porsi veti e a tagliarsi la strada da non accorgersi che un leader ce l’hanno già. Non Giuliano Pisapia, il Parolaio Rosa, di cui ancora non s’è capito quasi nulla, anche perché impiega un quarto d’ora solo per dire ciao. Ma Pier Luigi Bersani, affiancato da volti nuovi come Anna Falcone e Tomaso Montanari, simboli del No al referendum (quando Pisapia votò Sì, riuscendo a far sembrare D’Alema un pischello). L’altra sera Bersani era a In onda estate, su La7. E sarà stato forse il contagio del concertone del suo idolo Vasco Rossi, ma riusciva addirittura a farsi capire, senza mucche nel corridoio né giaguari da smacchiare. Non è più, per fortuna, il Bersani confindustriale degli anni 90 e 2000, che accettava finanziamenti dalla famiglia Riva e dalla lobby dell’acciaio e non li restituiva dopo gli scandali dell’Ilva, né l’alfiere delle coop rosse dei capitani senza capitali che compravano Telecom a debito, né il cantore delle grandi opere inutili anzi dannose. Era il nuovo Bersani, l’unico della vecchia guardia ex Pci ad aver capito che il blairismo e il clintonismo potevano andar bene 20 anni fa, in piena espansione, non oggi, in quest’èra interminabile delle vacche (o mucche) magre.
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Parlava di protezione sociale, di investimenti pubblici nella manutenzione del territorio, di tasse ai ricchi, anche sul tabù della casa, di un reddito minimo per chi non ha nulla e cerca un lavoro, di liberalizzazioni al servizio dei consumatori e non delle lobby, una Rai pubblica che liberi almeno un canale per i talenti artistici emergenti (e lui lo può dire: fu l’unico segretario Pd a non lottizzare la Rai, ma a nominare nel Cda intellettuali indipendenti della società civile). Riconosceva di non essere certo l’uomo del futuro, ma diceva di voler spendere l’ultimo tratto della sua carriera politica per una sinistra concreta e comprensibile, che “parli come Vasco, con parole che arrivino a destinazione come pallottole”. Una sinistra moderna che non passa il tempo a guardarsi l’ombelico discettando di fumisterie superate, tipo il centro-sinistra col trattino o senza, l’Ulivo, l’Unione, il Campo progressista, ma spiega chiaramente cosa vuol fare. Una sinistra senza puzza sotto il naso, che capisce in quale Paese si trova (un’Italia spaventata e rassegnata che guarda a destra perché la sinistra la sente lontanissima, parolaia, elitaria). Non demonizza i 5Stelle.
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Anzi li rispetta come una forza arrabbiata di centro, non come un branco di baluba eversivi e pericolosi. E compete con l’altro fronte che si è appropriato dei temi della protezione sociale regalati dai progressisti alle nuove destre protettive e protezioniste (altro che neoliberismo), fino all’avvento di Sanders in America, di Corbyn in Gran Bretagna e di Mélenchon in Francia. Però rivendica con orgoglio un merito che nessun altro leader del Pd, a parte Prodi, può vantare: quello di aver rinunciato nel 2013 alla comoda poltrona di Palazzo Chigi per non allearsi con B.. Cosa che invece fece Letta e rifece Renzi sotto le mentite spoglie del Patto del Nazareno per le “riforme”. Bersani aveva in mente un altro progetto: un governo di minoranza Pd-Sel con l’astensione del M5S, unico vincitore delle elezioni. La formula non poteva funzionare: sia perché i 5Stelle appena arrivati erano ancora acerbi, immaturi e incapaci di un discorso politico pragmatico; sia perché avevano gli stessi voti del Pd e non potevano avallare un governo già bell’e pronto, con ministri e programma preconfezionati, per giunta guidato dal leader del Pd. Bersani avrebbe dovuto fare un passo indietro, optando per un premier-ponte e indipendente, dunque gradito o non sgradito ai 5Stelle. I quali avevano anche suggerito il percorso: se il Pd avesse mandato al Quirinale il loro candidato Stefano Rodotà, pezzo pregiato della sinistra, poi quello strano governo di cambiamento avrebbe potuto vedere la luce. Le cose andarono diversamente e sappiamo bene per colpa di chi: non di Bersani, ma di Giorgio Napolitano e dei poteri forti nazionali e internazionali retrostanti, che preferirono restaurare l’Ancien Régime con la solita sbobba delle larghe intese per seguitare a comandare per interposta persona. Bersani infatti non porta rancori, come un vecchio saggio che ne ha viste tante (rischiò la pelle per un ictus di cui porta la cicatrice sulla pelata). E torna su quello schema per parlamentarizzare l’ansia di cambiamento degli elettori di Grillo.
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I grillini sono animali strani. Ma, malgrado la guerra senza quartiere – mediatica, politica e anche giudiziaria – subita in questi anni, sono ancora in testa ai sondaggi. Se resisteranno fino alle elezioni e riceveranno l’incarico da Mattarella, si ritroveranno in mezzo allo stesso guado del Bersani 2013: a un passo da Palazzo Chigi, ma senza i numeri per raggiungerlo. E dovranno chiedere aiuto alla forza più vicina, o meno lontana. Che non è la Lega di Salvini, come blaterano i giornaloni. Ma l’eventuale lista di una sinistra unita che parli il linguaggio di Bersani. Stiamo evocando una congiunzione astrale complicatissima, ai limiti dell’impossibile, fondata com’è su due ossimori: un M5S che scopre il pragmatismo, cioè la politica; e una sinistra che marcia compatta e parla a una voce sola. Ma, per auspicarla con tutte le forze, basta pensare all’unica alternativa: il governo Renzusconi. Una cagata pazzesca.
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Il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2017


 

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