La politica che ignora l’astensione

04 Lug 2017

Per tutti è difficile capire dove la nave va, ma per gli apparati di partito, estirpata con apposita lobotomia ogni capacità di autocritica, pare addirittura impossibile. In casa Pd, il risultato delle Comunali viene letto dai più come se fosse possibile retrodatarlo di dieci o vent’anni, misurando sul bilancino quanto cresce “la destra” o cala “la sinistra”.
Ma due fattori-chiave condannano tali analisi: primo, queste Comunali sono una tappa intermedia fra il rovinoso referendum del 4 dicembre e le Politiche di chissaquando; e per quanto Renzi abbia cercato di defilarsi sono state determinate, come già il referendum e le Politiche, dall’ingombrante personalismo del segretario del Pd.
Secondo, il macrofenomeno che segna questa sequenza di tre appuntamenti elettorali è la crisi irreversibile di quella che fu la Sinistra: il fallimento del progetto-Pd, formazione ibrida che per governare ha adottato in gran parte le politiche della destra innescando la reazione a catena delle scissioni, frantumazioni, correnti, dissensi e altri sgretolamenti e voragini. Anche se svuotato delle ragioni storiche della Sinistra, il Pd ne ha ereditato qualche residua pattuglia di irriducibili fedeli al partito-che-non-c’ è-più. Fedeli, è vero, al verbo del Nazareno quale che esso sia, ma vecchi dentro e comunque in via d’ estinzione.
La decomposizione del Pd è la causa principale del crescente astensionismo, che inquina e falsifica qualsiasi risultato elettorale, quando si rifletta che si può esser sindaco di una città importante con il 18% dell’elettorato reale. Su questo sfondo, il conclamato successo di Berlusconi (ma anche la relativa tenuta dei Cinque Stelle) sono epifenomeni, che si scioglierebbero come neve al sole se in luogo del Pd vi fosse un partito di sinistra capace di lanciare un serio progetto per l’Italia e riportare gli elettori alle urne.
Insistendo su una voglia di rivalsa sempre più sfocata e patetica, Renzi si autodenuncia come responsabile dei rovesci passati e futuri di un partito che a quel che pare non sa disfarsene.
Ma sarebbe ingiusto considerarlo l’unico colpevole. L’elenco dei complici è lungo, anche se molti trovano solo ora il coraggio di parlare, magari a fior di labbra. Dov’erano i nemici dell’astensionismo, quando alle Europee 2014 Renzi sbandierò il prodigioso 40,81% del Pd? Perché non hanno detto subito con altrettanta forza che, poiché i voti espressi coprivano solo il 50,58% dell’ elettorato, quel 40,81% valeva in realtà solo 20,64%?
E perché l’astensionismo era un tema di cui tacere (come di sesso in un salotto vittoriano) finché si credeva potesse avvantaggiare il Pd con un (finto) 40%, e ora che gioca a favore delle destre e dei Cinque Stelle è giusto parlarne? Da che parte stanno i parlamentari che prima hanno votato in aula per una riforma costituzionale davvero infelice, e poi al referendum hanno fatto campagna per il No?
Che idea d’Italia hanno in testa ministri e deputati che si sdegnavano davanti a norme di devastazione dell’ambiente “modello Maurizio Lupi” finché a proporle era la destra, e le hanno disciplinatamente votate quando l’identico testo veniva sottoscritto dal Pd?
Perché una nuova legge elettorale era suprema urgenza purché subito dopo si sciogliessero le Camere, ed è stata messa in soffitta una volta allontanatasi questa prospettiva? Come mai si parla tanto di possibili alleanze a valle delle Politiche, e tanto poco di idee e di programmi? Riconquistare alle urne i cittadini che le evitano (oltre metà dell’ elettorato) dovrebbe essere il primo punto all’ordine del giorno, se la parola “democrazia” è qualcosa di più che un flatus vocis.
Tanto più che con la crescita dell’astensionismo avanzano la protesta, il cinismo, il disagio sociale, la disoccupazione giovanile, le nuove povertà, il degrado delle coscienze. Riportare alle urne chi se ne sta allontanando non è impossibile: lo si è visto il 4 dicembre, quando al referendum costituzionale hanno votato oltre 33 milioni di italiani (il 66%). Ripartire dalla Costituzione per rilanciare la democrazia rappresentativa, far leva sui diritti (e non sugli schieramenti) per progettare il futuro, ripensare la forma-partito come luogo di riflessione e di ricerca, e non cassa di risonanza di un qualsiasi capo (che si chiami Renzi, Berlusconi o Grillo).
Imparare ora senza aspettare dalle politiche una lezione ancor più dura. Ma i nostri Soloni sapranno capire che l’autocritica è il prerequisito indispensabile di ogni capacità progettuale? Come diceva Croce, c’è sempre qualcuno che, posto al bivio fra capire e morire, senza esitazione sceglie il martirio.

 

(*) Il professor Salvatore Settis è garante di LeG.

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