Monsieur Macron

21 Giu 2017

Fabrizio Tonello

Emmanuel Macron ottiene 306 seggi, gli alleati di François Bayrou 42, una solida maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale: i francesi che hanno votato (pochi, il 42%) gli consegnano tutti i poteri, nella tradizione di affidarsi all’Uomo della provvidenza. Macron oggi come Mitterrand nel 1981, de Gaulle nel 1958 e nel 1940, Clemenceau nel 1917, in una tradizione bonapartista che apparentemente nulla può rompere.

Era previsto: il sistema politico creato dalla costituzione del 1958 ruota attorno alle elezioni presidenziali e non è mai successo che il voto per il parlamento subito dopo un’elezione presidenziale negasse una maggioranza al nuovo capo dello stato. Hollande, nel 2012, ottenne 331 seggi su 577, Sarkozy nel 2007 ne aveva conquistati 313, Chirac nel 2002 ne raccolse 357. Le uniche “anomalie”, cioè elezioni parlamentari con maggioranze diverse da quella presidenziale avvennero nel 1997, quando Chirac sciolse la camera e i socialisti, a sorpresa, divennero il primo partito, e nel 1993 e 1986 quando Mitterrand non riuscì ad avere una maggioranza di socialisti in parlamento e fu costretto a nominare primo ministro un leader dell’opposizione.

Una vittoria, quella di Macron, che rivela però la fragilità della sua base: circa 8 milioni di voti sia al primo turno delle presidenziali che al secondo turno delle legislative. Si tratta, grosso modo, del 17% degli aventi diritto al voto. Una minoranza che si è trasformata in maggioranza perché all’orizzonte non si vedevano alternative: i francesi hanno votato contro Marine Le Pen al secondo turno delle presidenziali più di quanto abbiano votato per Emmanuel Macron. Hanno votato per i suoi caandidati per permettergli di governare, ma qual è la legittimità politica di un presidente scelto da neppure un francese su cinque?

Macron ha costituito un governo con un gollista moderato come primo ministro, Edouard Philippe, sperando di risucchiare nella propria orbita anche una parte sostanziale del centrodestra. Per il momento l’operazione non sembra riuscita: domenica i Républicains, forti del loro solido radicamento territoriale, hanno ottenuto 113 seggi (più un’altra trentina sotto etichette differenti) e resteranno all’opposizione, anche se alcuni di loro si sono detti disponibili a dialogare con il governo. Macron ha il vantaggio avere ottenuto la maggioranza assoluta (che è di 289 seggi) anche senza l’appoggio del MoDem, il movimento di Bayrou, in caso di futuri dissensi con l’alleato.

Jean-Luc Mélenchon è stato eletto a Marsiglia ma non ha ripetuto il successo delle presidenziali, dove aveva ottenuto quasi il 20% dei suffragi. Il suo movimento France Insoumise ha ottenuto 17 seggi, quindi sarà in grado di costituire un gruppo parlamentare, ma anche insieme ai 10 deputati comunisti poco potrà fare in parlamento per arginare Macron. Il suo futuro dipende interamente da quanto la Francia ribelle saprà e vorrà esprimersi nelle piazze: il nuovo presidente ha fatto della riforma della legislazione sul lavoro una sua priorità ma dovrebbe ricordare che vari governi francesi hanno pagato duramente i tentativi di aumentare la flessibilità e la precarietà: dal ministro socialista Myriam El Khomri, che domenica non è stata eletta, fino al primo ministro gollista Alain Juppé nel 1997, la cui carriera politica fu bruscamente interrotta da un movimento sociale di ampiezza paragonabile solo al 1968.

Quella che esce dalle urne oggi è di fatto una Grande coalizione centrista: da una parte il nuovo partito En Marche!, frutto più che altro di un’abile operazione di marketing in cui il partito socialista cambia pelle e si trasforma in un partito personale, guidato dalla faccia giovane e telegenica di Macron. Il duo impresentabile Hollande-Valls esce di scena (il primo non si è ricandidato il secondo è stato eletto per un soffio alla camera come indipendente, con soli 139 voti di scarto). Dall’altra, un gruppo raccogliticcio di centristi, ex gollisti, personaggi della società civile.  In fondo, una soluzione non troppo diversa da quella degli altri dieci paesi europei dove i partiti tradizionali di destra e di sinistra si sono messi insieme per sopravvivere all’avanzata dei movimenti di estrema destra, come in Germania e in Olanda, oppure di sinistra, come in Spagna, dove i socialisti si sono astenuti per permettere la nascita del nuovo governo di Mariano Rajoy e arginare Podemos.

Le grandi coalizioni sono però uno strumento fragile, che rivela la disaffezione dei cittadini verso la politica.

Domenica l’astensionismo ha superato il 57% degli iscritti alle liste elettorali (che a loro volta non coprono l’intero universo degli adulti perché l’iscrizione non è automatica) e tra i giovani, nella fascia d’età tra i 18 e i 24 anni, l’astensione ha coinvolto tre quarti degli aventi diritto. Macron, in un certo senso, “governa sul vuoto” come molti altri leader europei in un continente dove le élite da tempo non sembrano più in grado di dare risposte alle domande sociali.

(*) Tonello, socio di Leg, è professore di Scienza Politica all’Università di Padova

il manifesto, 20 giugno 2017

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