Restituire i 250 milioni della ricerca alla ricerca è etico e dovuto

04 Giu 2017

La “manovrina” approvata alla Camera arriverà blindata in Senato. Manca nel testo – malgrado si fosse a un passo – il più grande conferimento di risorse alla ricerca pubblica in ogni disciplina della storia della Repubblica. Gli emendamenti relativi sono stati ritirati dopo interventi anche di politici liguri che hanno paventato un grave danno all’ Istituto Italiano di Tecnologia (IIT). È questo il tema su cui voglio concentrarmi, tralasciando il resto.

Gli emendamenti miravano a recuperare 415 milioni dieu ro. Sono una parte dell’ oltre mezzo miliardo accumulato da IIT in 14 anni di sovrafinanziamento pubblico per la ricerca. A chi ripete acriticamente che l’ Ente avrebbe “risparmiato” la somma nei primi anni di vita, consiglio di verificare le fonti. Farà fatica, perché i bilanci non sono pubblici (eccetto gli ultimi, visibili da un anno), ma capirà che è falso.

IIT nasce nel 2003 e nei primi tre anni riceve dallo Stato 181 milioni. All’ inizio riesce a spenderne solo una parte. Eppure riceve altri 100 milioni da Cassa Depositi e Prestiti (CDP). Si tratta del massimo prestito che la legge istitutiva consente, erogato entro il 2006. Per legge, quel prestito non è ripagato da IIT, ma dal Ministero dell’ Economia (ovvero dai cittadini). Per i primi Gentiloni si confronterà con Angela Merkel e soprattutto Emmanuel Macron: al summit d’ esordio, il francese scoprirà le sue carte.

Stando alle regole vigenti, nel 2018 l’ Italia dovrebbe migliorare il proprio deficit strutturale dello 0,6%, poco più di 10 miliardi. Quest’ an sette anni, tra capitale e interessi, per ripagare il “prestito” a IIT, il MEF eroga a CDP 10 milioni/anno. Intorno al 2010 la rata è rinegoziata a 7 milioni/anno. Probabilmente si allungano i tempi per l’ estinzione del debito (fino al 2035?) e si aggiunge anche quella che appare essere una penale di oltre 800.000 euro/ anno. Il costo finale di un “prestito” di 100 milioni a un Ente che “risparmiava”, “accumulava” o “non spendeva”, potrebbe ammontare, per noi che paghiamo le tasse, a ulteriori 200 milioni di euro.

Nel 2007 viene sospeso per un anno il finanziamento pubblico, ma IIT riceve i 128 milioni di patrimonio della disciolta Fondazione IRI. Dal 2008 IIT incassa dallo Stato, in modo non competitivo, per la propria ricerca e il personale, circa 100 milioni/anno e, almeno fino al 2015, ne accantona oltre 20 in media ogni anno. In nove anni si passa da circa 250 a circa 450 milioni.

Tutto verificabile. A questo si aggiunge il patrimonio ex -IRI, per un accumulo totale di oltre mezzo miliardo. In sintesi, l’ accumulo non sembra definibile come “risparmio dei primi anni” o “frutto di oculata gestione”.

Se a IIT si sottraesse il “teso retto” conservato in Banca d’ Italia, resterebbero comunque in cassa i circa 100 milioni ex -IRI (fruttiferi), i liquidi nei restanti conti correnti (derivanti da diverse fonti) e il finanziamento pubblico di circa 100 milioni annui sine die, stabilito per legge. A questi fondi si aggiungono quelli derivanti da progetti di ricerca nazionali e internazionali cui IIT può accedere e i proventi da reperire sul mercato (vista la sua primaria missione di trasferimento tecnologico).

Per una maggiore chiarezza, faccio un paragone. L’ Università di Genova ha ricevuto per il 2015 circa 200 milioni dallo Stato, assorbiti dai costi del personale (196 milioni) e da quelli di ordinario funzionamento. Per le proprie attività di ricerca, gli studiosi possono contare su ciò che ottengono in maniera competitiva (27 milioni nello stesso anno).

Inoltre, tutto il personale è impegnato nella didattica derivante dalle decine di migliaia di studenti iscritti. IIT, nello stesso 2015, ha ricevuto circa 100 milioni, a fronte di costi per il personale pari a 27 milioni. I ricercatori di IIT quindi, tolti i costi di funzionamento, hanno a disposizione la restante parte per le loro ricerche, senza competere per il finanziamento come i loro colleghi universitari genovesi.

Nessuno vuole mettere a rischio la sopravvivenza di un Ente sul quale lo Stato ha già investito circa 1,7 miliardi. Ma non si può ignorare che il motivo per cui IIT assorbe “solo” l’ 1% dei fondi per enti pubblici di ricerca e formazione, è perché gli altri enti pagano più ricercatori, sostengono la formazione superiore, collocano l’ Italia, da sempre e nonostante tutto, in ottime posizioni nelle classifiche internazionali. Si sostiene, poi, che questo 1% renda il 10% dei brevetti nazionali. Questo è da dimostrare. Va ricordato, inoltre, che le università non hanno come missione primaria il trasferimento tecnologico e hanno una larga popolazione di umanisti. Peraltro, l’ ufficio europeo per i brevetti vede il CNR, ma non IIT, nei primi dieci enti italiani come numero di domande (anno 2015).

Un’ultima riflessione voglio riservarla alla valutazione: ANVUR nel periodo 20112014 che vede IIT in posizioni alte in classifica. Bisogna infatti spiegare che, diversamente dagli enti pubblici di ricerca controllati dal MIUR che devono sottoporre a valutazione tutto il proprio personale, un Ente come IIT che si sottopone volontariamente alla valutazione può decidere “quanti e quali” perché non ha l’ obbligo di accreditare e far valutare tutti i propri addetti. In altre parole, tali Enti possono scegliere solo quel piccolo insieme di ricercatori più produttivi che hanno a disposizione, escludendo gli altri.

Un tavolo di Ministri ha ora stabilito un accordo con IIT per la “restituzione” di 250 milioni. Questo non ci dice nulla sui 415 milioni accantonati. Se esistono ancora – ed è necessario che il Ministero dell’ Economia faccia chiarezza – devono essere restituiti alla ricerca pubblica. Se sono stati spesi o impegnati per altro è urgente sapere cosa ne è stato e chi, anche in questo caso, (non) ha controllato.

Il Secolo XIX, 2 Giugno 2017

(*) L’autrice è docente all’Università Statale di Milano e senatrice a vita.

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