TANTI AUGURI, SANDRA! DA TUTTA LIBERTA’ E GIUSTIZIA

02 Giu 2017

Redazione

Gli 80 anni di Sandra Bonsanti, giornalista e presidente emerita di Libertà e Giustizia
di Silvia Truzzi

Anche la domanda più banale – “Quando compi gli anni?” – con lei ha una risposta inaspettata. “In realtà non lo so”. La nostra chiacchierata con Sandra Bonsanti, alla vigilia di un compleanno tondo, deve cominciare da qui.

Come fa a non sapere quando è nata?
Ho sempre festeggiato il 1° giugno. Ma a un certo punto della vita, quando i miei genitori non c’erano più, mettendo insieme le carte della mia nascita e alcune memorie familiari ho scoperto che probabilmente sono nata il 27 maggio. I miei genitori non erano sposati, mia madre era ebrea e si nascondeva a causa delle persecuzioni fasciste.

L’infanzia dove l’ha trascorsa?
Il tempo di guerra è stato molto avventuroso: non potevo andare a scuola, era troppo pericoloso. Ricordo perfettamente il giorno in cui mi hanno affidato a Giovanni Colacicchi, un pittore amico di famiglia. Mia madre mi portò a comprare degli scarponcini nuovi, una cosa che lì per lì mi fece molto contenta. Solo qualche ora dopo capii, quando la mamma mi mise al collo di Giovanni, che quelle scarpe servivano per andarmene.
Nei giorni della Liberazione tornai a Firenze: ho ancora negli occhi i cumuli di macerie che erano diventati tanti magnifici palazzi dopo le bombe.

Dopo la guerra?
Ho fatto tutte le scuole a Firenze. La mia famiglia era laica, ma un certo punto, avrò avuto 16 anni, papà mi disse una frase che non mi sono mai dimenticata: “Sarà l’ora che tu impari a fare qualcosa per gli altri.” E mi portò da padre Ernesto Balducci che aveva fondato un’associazione, Il Cenacolo, e che poi avrebbe dato vita alla rivista Testimonianze. Così cominciai a fare volontariato: andavamo dalle persone che avevano bisogno, portavamo le medicine, insomma fornivamo assistenza.
C’erano Giorgio La Pira e padre Turoldo. Ricordo che ci portarono anche a Barbiana da don Milani. Quel periodo è stato fondamentale per me: se nella vita ho cercato di coltivare l’ impegno e la partecipazione, lo devo agli anni del Cenacolo.

Suo padre Alessandro era uno scrittore.
In casa ho mangiato pane e libri. Infatti mi sono iscritta a Lettere classiche dove insegnavano grandi professori come Giacomo Devoto ed Eugenio Garin. Dopo la laurea in Etruscologia, sono partita per gli Usa: avevo conosciuto un “ragazzo Fulbright”.

Un… cosa?
Era un programma di scambio tra Università, diciamo un antesignano dell’Erasmus. E ho vissuto otto anni a New York, dove sono nate le mie tre figlie. Poi sono tornata in Italia e subito ho cominciato a lavorare al Mondo di Arrigo Benedetti.

In che anni siamo?
Nel ’69, erano i giorni terribili di Piazza Fontana. Arrigo è stato quel direttore che uno si augura di avere per sempre, un maestro formidabile. Per spiegare com’era, racconto un episodio. All’inizio degli anni Settanta mi mandò in Sicilia, dopo una grande retata di mafiosi. Andai dal Comandante della Legione di Palermo: era Carlo Alberto dalla Chiesa. Fu una lunga chiacchierata, in cui il colonnello – non era ancora generale – si lasciò andare a uno sfogo amaro: aveva molti problemi con la Procura. Mentre il giornale stava andando in tipografia, Dalla Chiesa chiamò il direttore: si era accorto di essersi spinto troppo in là. Chiese di non fare uscire l’intervista. Arrigo mi chiamò e mi chiese: queste cose il colonnello le ha dette? Io tirai fuori il mio blocco degli appunti e, tremebonda, risposi la verità: le ha dette. A quel punto lui riprese la cornetta e disse solamente: “La mia giornalista dice che lei ha detto quelle cose, quindi saranno pubblicate”. E mise giù il telefono. Era rigidissimo sull’etica del lavoro: non voleva sedersi a tavola con i politici, temeva di poter essere influenzato.

Dopo il Mondo ?
Sono stata alcuni anni a Epoca e Panorama, poi al Giorno di Afeltra e alla Stampa con Fattori. Nell’81 Scalfari mi prese a Repubblica. Ho seguito tutta la Commissione Anselmi, l’inchiesta sulla P2 e devo dire che Scalfari mi fece sempre scrivere tutto. Nel 1993 l’ Ordine dei giornalisti e la Federazione della Stampa hanno incaricato Angelo Agostini e me di redigere la Carta dei doveri del giornalista.

Perché ha lasciato il suo amatissimo lavoro per candidarsi nel ’94 alle Politiche?
Io e alcuni colleghi – Miriam Mafai, Corrado Stajano, Beppe Giulietti – eravamo convinti di dover andare in Parlamento per arginare Berlusconi. Volevamo assolutamente che fosse fatta la legge sul conflitto d’interessi. Andai da Luigi Berlinguer che allora era capogruppo dei Progressisti per dirgli che volevo stare nella Commissione sulle telecomunicazioni. Lui mi rispose: “Di politica non capisci nulla. Quella contraddizione è il punto debole di Berlusconi e dobbiamo lasciarglielo”.
Fu una delusione enorme. Di buono in quell’ esperienza c’ è stato capire come funzionava dall’ altra parte, come è davvero il lavoro del parlamentare.
Tra l’altro ricordo tante bravissime colleghe, a cui facevano fare tutti i lavori più rognosi e difficili: erano ancora anni di pregiudizi. Io pure fui messa in commissione Antimafia, ma in quota rosa!

Poi ha diretto Il Tirreno di Livorno.
L’inizio di quella straordinaria avventura fu tumultuoso: i livornesi si videro arrivare non solo una donna, ma pure una nata a Pisa! Ma quasi subito nacque con la redazione un grande affetto. I colleghi mi guardarono perplessi quando dissi che non avrei voluto vedere sul giornale comunicati stampa e veline. Aggiunsi: quando qualcuno – il sindaco, il presidente della Regione, il maresciallo dei Carabinieri – vi dà una versione ufficiale di un fatto partite dal presupposto che è falso.
Verificate tutto. Sapevo di esagerare ma volevo dare un segnale e i miei giornalisti lo capirono. Dopo sette anni Carlo De Benedetti e Carlo Caracciolo m’invitarono a pranzo per chiedermi di guidare la neonata Libertà e Giustizia. Andai da Enzo Biagi e gli chiesi se dovevo accettare.
Lui mi disse: “Fallo, basta che ti ricordi sempre che per prima cosa sei una giornalista”.

In questo mezzo secolo com’è cambiata l’informazione?
Gli italiani non hanno ancora capito che senza informazione libera non c’ è democrazia.
Il guaio è che non lo sanno più nemmeno i giornalisti. Il potere è invadente, ma quasi nessuno si oppone. Se potessi introdurrei un reato in più: tentata influenza sugli organi d’informazione e chiuderei l’ufficio stampa di Palazzo Chigi. Un politico non dovrebbe chiamare un giornalista mai, dovrebbe solo rispondere a richieste di chiarimenti fattuali. I miei modi sono spicci, ma sono sconcertata dallo spettacolo offerto in questi giorni: invece che parlare dell’ oggetto dell’ inchiesta Consip, i giornali si occupano di chi ha passato l’intercettazione dei due Renzi! È ridicolo. Purtroppo è colpa nostra: abbiamo perso l’ orgoglio della nostra professione.

Il Fatto Quotidiano, 27 Maggio 2017

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