Rai, cavallo morente? Manca una vera strategia pubblica

28 Mag 2017

Vincenzo Vita

“Non si uccidono così anche i cavalli?” recita il titolo di un famoso film del 1969 di Sydney Pollack con Jane Fonda. Ed è proprio il cavallo scolpito da Messina che simboleggia la Rai a morire in queste ore. Sì, perché la miscela tra dilettantismo, arroganza e insipienza politica sta riuscendo nell’opera di devastazione del servizio pubblico che a nessuno -destra dura e pura, berlusconiani, sinistrorsi delle terze vie- era finora riuscito.

Le ultime decisioni, tese a sfiduciare da parte della maggioranza di un Consiglio di Amministrazione, ormai logoro, l’amministratore Campo Dall’Orto -del resto rivelatosi la persona sbagliata al posto sbagliato- ci raccontano che l’occupazione di viale Mazzini da parte del mondo “renziano” è miseramente fallita. Tra il dramma e la farsa. Con grande improntitudine fu varata con impeto autoritario la (contro)riforma, la legge 220 del dicembre 2015.

Quest’ultima, a costo di sovvertire quarant’anni di giurisprudenza costituzionale e le linee guida adottate dalle stesse forze che diedero vita al partito democratico, attribuì poteri assoluti all’”uomo solo al comando”, scelto verosimilmente più per la partecipazione alla Leopolda che per meriti manageriali. Nessuno vuole mettere in causa le qualità di programmatore televisivo dell’ad insignito dello scettro, ma la direzione di un’azienda di servizio pubblico è altra cosa.

Tuttavia, le cronache ci spiegano che a sollecitare il pollice verso siano stati persino taluni comportamenti di maggiore autonomia e di cautela nei riguardi del pressing proveniente dal Nazareno. Cui trasmissioni indipendenti come “Report” o qualche indisciplina di Bianca Berlinguer o di Lucia Annunziata non andavano a genio. E si è aggiunta, infine, la scimitarra di Alfano contro “Gazebo” (lunga vita), e purtroppo non è una battuta.

Ora segue il caos, con il rischio che si innesti una parabola discendente senza ritorno. La Rai, infatti, è un apparato complesso, che non si può guidare a colpi di diktat o facendosi corrodere dall’inerzia. Così è stato sulla delicata questione del tetto dei compensi dei “famosi”, pronti ad urlare contro i mali del mondo, ma gelosissimi del proprio valore commerciale. Già, il mercato.

Quest’ultimo, invocato nei convegni come mezzo e fine di ogni modernità, appena si appalesa sul serio vede i condottieri liberisti uscire di strada alla prima curva. E la scaltra concorrenza aspetta sulla sempreverde riva del fiume. Inoltre, il pasticcio del piano sull’informazione, che va su e giù come un ballerino titolo di borsa o lo stop and go cui è sottoposta una delle firme migliori come Milena Gabanelli. Non sfugge il punto principale della crisi: l’assenza di una vera strategia pubblica, cui certamente non risponde la recente convenzione con il Ministero sostanzialmente continuista.

Mentre l’età digitale esige un mix di “stato innovatore” e di investimenti produttivi nei linguaggi e nella creatività dell’”infosfera”. Non a caso, le ultime roccaforti un po’ in movimento sono rimaste la fiction di RaiUno e certe novità di RaiDue.

La Rai, com’è noto, anticipa in modo rabdomantico le cose italiane. Ci sottolinea con volgare evidenza che il drappello degli zelanti messo alla testa di viale Mazzini ha fallito completamente, insieme ai mandanti. Via subito, per non aggiungere pena a pena, come hanno giustamente chiesto le organizzazioni sindacali.

In queste ore (il 24 maggio ndr), davanti a Montecitorio, si è tenuto un importante sit in sulla libertà di informazione. Speriamo che qualcuno ascolti.

il Manifesto, 24 Maggio 2017

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