Caselli: Dopo morte Falcone ho temuto anch’io per la democrazia

26 Mag 2017

Liana Milella

ROMA. «Il Csm tradì Falcone, la punta di diamante nella lotta alla mafia, e nominò Meli».

Lo dice l’ ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli.

 Cosa le è mancato in questi anni di Falcone?

«Mi è mancato Falcone. Falcone come testimone di una verità che molti, anche magistrati, hanno vilmente calpestato. Mi riferisco a coloro che avendo la coda di paglia – se non peggio – hanno attaccato e diffamato la procura di Palermo che io ho diretto dopo le stragi del ’92, sostenendo che certi processi, Andreotti e Dell’ Utri “in primis”, Falcone non li avrebbe mai fatti».

Non è così?

«È falso. Tutti i processi, compresi quelli agli imputati “eccellenti”, sono stati avviati solo dopo aver rigorosamente verificato, in fatto e in diritto, la sussistenza delle condizioni necessarie. Esattamente come faceva Falcone. Davvero vergognoso e meschino tirarlo in ballo da morto per sostenere tesi d’ accatto.

Senza mai chiedere scusa, neppure quando l’ impostazione della procura veniva confermata in Cassazione».

Qual è l’eredità, umana e professionale, che ha lasciato agli italiani e alle toghe?

«Rispondo parafrasando una riflessione dello storico palermitano Salvatore Lupo, che vale per tutte le vittime di mafia, Falcone compreso. Dal martirio di alcuni nasce la sorpresa che, in un’ Italia senza senso della patria e dello Stato, ci siano soggetti disposti a morire per questa patria e per questo Stato.

Viviamo in un paese nel quale lo Stato si manifesta troppo spesso con i volti impresentabili di personaggi eccellenti che con il malaffare hanno scelto di convivere. Le vittime della violenza mafiosa, operando come hanno operato in vita, e sacrificandosi fino alla morte, hanno restituito un po’ di Stato alla gente, che così riesce a dare un qualche senso alle parole “lo Stato siamo noi”».

Se dovesse riassumere in una frase il suo metodo di lavoro come lo definirebbe?

«Organizzazione – il pool – contro organizzazione – della mafia. Con una forte etica della responsabilità. Vale a dire il rifiuto di interpretare il proprio ruolo in termini burocratici, per ricercare, nel rispetto delle regole, risultati concreti anche quando “scomodi”».

Dopo Capaci lei ha chiesto di andare a dirigere la procura di Palermo. Perché?

«Condividevo le parole di Nino Caponnetto – “È tutto finito, non c’ è più niente da fare” – e temevo anch’io che la nostra democrazia potesse essere spazzata via da un potere criminale spietato e stragista, che aveva come obiettivo un narco-stato o uno stato-mafia. Se fossi rimasto a guardare questo scempio senza far nulla, mi sarei sentito in colpa per tutta la vita».

Falcone era scappato da Palermo al ministero della Giustizia perché, come di dimostrano le pagine dei suoi appunti, lì non lo lasciavano più lavorare. A sette mesi dall’ attentato, lei cosa trovò?

«Trovai macerie, corvi e veleni. Erano ancora aperte le ferite profonde che avevano costretto Falcone ad emigrare da Palermo, chiedendo una sorta di asilo politico-giudiziario a Roma al ministero. Ai colleghi di Palermo dissi che bisognava farla finita col passato. Dovevamo fare blocco tutti quanti insieme e guardare avanti, altrimenti saremmo andati a sbattere. Devo dire che questo “programma” fu condiviso e attuato da tutti. Dagli amici di Falcone e da quelli che non lo erano stati».

Lei era al Csm, per Md, nell’ 89 quando il Consiglio scelse Meli invece di Falcone.

Che successe dentro Md? Lei voto per Falcone, ma gli altri?

«Borsellino era stato nominato procuratore di Marsala per la sua specifica professionalità antimafia. Poi si trattò di scegliere il successore di Caponnetto, già capo dell’ Ufficio istruzione, tra Meli e Falcone. Il primo, digiuno di processi di mafia. Il secondo, punta di diamante del pool che aveva dimostrato come la mafia, fino ad allora impunita, potesse essere sconfitta. Inopinatamente il Csm tradì l’orientamento già assunto per Marsala e invece di Falcone nominò Meli».

Come fu possibile?

«Qualcuno, al Csm, deve aver pensato che la mafia avesse un terrore folle della gerontocrazia. Assurdo. Ma c’è di più: la nomina riguardava un ufficio praticamente già defunto perché era prossima l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale che nell’89 avrebbe cancellato la figura del giudice istruttore. Per cui ancora oggi faccio fatica a capire la bagarre scatenatasi al Csm e in particolare l’accanimento contro Falcone. Una logica potrebbe esserci se si ipotizzasse che tra gli obiettivi, per qualcuno, c’era anche il metodo di lavoro di Falcone. Vincente contro la mafia».

Md non ha mai fatto autocritica?

«Io votai per Falcone a differenza dei miei colleghi di corrente. Ma sono innegabili la loro buona fede e coerenza, se si considera che neppure per Borsellino votarono a favore. L’ errore fu la loro mancanza di senso del reale e di duttilità.

Ma a far pendere la bilancia dalla parte sbagliata furono soprattutto i consiglieri di altre correnti – Borsellino parlerà di “giuda” – che con disinvolte capriole cambiarono opinione, sconvolgendo i criteri di valutazione applicati per Marsala».

Come giudica i suoi colleghi che accusarono Falcone di essersi “venduto” alla politica per aver accettato la proposta di Martelli?

«Dopo aver constatato che tutte le porte del Palagiustizia di Palermo gli venivano sbattute in faccia, Falcone, che voleva solo continuare a lavorare sulla mafia, considerò quella ministeriale come una nuova concreta possibilità. E la praticò con intelligenza e determinazione, creando uno “strumentario” antimafia – la procura nazionale con relativa banca dati, la Dia, le procure distrettuali, la legge sui pentiti e il 41 bis – che tuttora funziona bene. Purtroppo finì anche per fare le spese dei furiosi contrasti che si produssero fra magistratura e politica e al loro interno».

La Repubblica.it, 23 Maggio 2017

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