LA VISIONE DI DI MAIO ALLA PROVA DI HARVARD

10 Mag 2017

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

La politica non conosce frontiere. Questa è la ragione della sua naturale qualità democratica: l’essere alla portata di tutti. E, inoltre, destare interesse in chi la studia non facendola. È successo a Luigi Di Maio, un politico molto tradizionale, ma di un movimento ben poco tradizionale. Questo lo rende un interlocutore interessante per chi studia la democrazia partecipativa, come gli harvardiani della Kennedy School of Government, con Archon Fung tra i più attivi e creativi studiosi di nuove forme di deliberazione, dal sorteggio alla consultazione popolare. In questo contesto, si comprende l’interesse (non di oggi) per il Movimento 5 Stelle, «populista e, sembra, di destra» (dice Fung) ma primo web-movement che in Occidente ha rivoluzionato la politica dei partiti. Di Maio si è ben preparato anche se molte delle domande ricevute venivano da suoi connazionali molto verbosi e polemici. Incalzarlo sulla sua strana idea di democrazia diretta sarebbe stato più interessante.

Della relazione di Di Maio, i quotidiani italiani hanno con insistenza messo in luce la proposta di scrivere, con consultazione via web, il programma elettorale entro luglio e poi a settembre “eleggere” (via web) il candidato premier e il suo governo. Gli uditori confluiti ad Harvard non hanno posto una domanda cruciale: come mai un “non-partito” come i 5 Stelle diventa una “parte”? Di Maio ha in qualche modo anticipato la domanda che non c’è stata: ha detto che il Movimento era inizialmente contrario alla rappresentanza ma poi, di fronte a tanto scempio e corruzione, i suoi leader hanno reputato necessario entrare nell’agone e giocare la carta elettorale. Con l’esito di governare alcune città – tra cui Roma – e contare su un numero ragguardevole di parlamentari ed europarlamentari. La politica dell’establishment è l’ambiente di Di Maio e della sua “parte”.

Di Maio ha così riassunto il programma del movimento: «Nel 2018, l’ Italia potrebbe avere il primo governo fondato sulla democrazia diretta». Ma – un’altra domanda che non c’è stata – come si combina l’uso delle elezioni, e quindi la rappresentanza, con la democrazia diretta? Diretta in che cosa? Non è un ossimoro eleggere rappresentanti con la “democrazia diretta”? E, poi, non è già quello che facciamo quando eleggiamo “direttamente” i parlamentari? Il M5S con la piattaforma Rousseau consulterà i suoi aderenti e li farà votare su proposte e possibili candidati: ma questa non è ancora democrazia diretta; è una forma partecipativa che legittima la democrazia rappresentativa (di cui ci sarebbe peraltro molto bisogno). E, inoltre, quella proposta non riguarda la partecipazione degli italiani in generale, ma degli aderenti al movimento – appunto di una “parte”. E, quindi, che lo si voglia o no, di un partito. Con l’ aggravante che una “parte” che non si riconosce come “parte” è ancora più problematica di un partito, perché cela quel che è.

La polemica contro la democrazia rappresentativa, che ha bisogno di partiti, genera un’ inquietante idea: che la cittadinanza sia senza “parti”, e che solo in questo modo possa essere espressione dell’interesse generale. Questo non ha nulla a che fare con Rousseau – che aveva ragione a insistere che la legge (il sovrano) non ha parti e non è di parte. Ma il rischio della concezione pentastellata, all’apparenza roussoviana, ma in effetti “parti-tista”, è di aumentare invece che contenere la discrezionalità dei decisori e degli eletti – perché tra loro e il popolo non c’è nulla e gli eletti fanno quel che vogliono per davvero. La democrazia diretta la fanno gli eletti, appunto.

Certo, i partiti sono un malato difficile da curare; e il partito del leader è l’altra faccia della medaglia del “gentismo” della cittadinanza senza “parti”. Non ci illudiamo che l’eliminazione dei partiti sia la salvezza della democrazia dalla corruzione e dall’opacità.

Di Maio ha detto che il loro è un movimento diverso da tutti i partiti populisti vecchi e nuovi, di destra e di sinistra, perché non ha ideologie, le quali sarebbero quindi il male assoluto perché fanno scegliere per pregiudizio invece che per giudizio, e bloccano la “meritocrazia” e la “competenza”. L’elogio della neutralità dei tecnici e di una conoscenza spoglia di interessi e passioni è propria del mito platonico, oggi rinato sotto le bandiere di quella che i teorici politici chiamano “democrazia epistemica”. La terra di Machiavelli che aspira a diventare la patria della episto-democrazia ha del paradossale; ma è un’ immagine non veritiera. La politica non ha comunque a che fare con scelte non-conflittuali in quanto “oggettive” – quale può essere quella decisione competente e non ideologica che vuole (o non vuole) regolare i rapporti di lavoro? E siamo proprio certi che la scelta del reddito di cittadinanza sia una questione tecnica? E siamo sicuri che togliere il quorum al referendum sia una soluzione desiderabile e addirittura più democratica, e non invece una furbetta strategia per dare più voce alla minoranza invece che alla maggioranza? Di Maio si è risparmiato queste domande, e gli è andata bene.

La Repubblica, 5 maggio 2017

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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