La Rai e i cocciuti cavalieri della privatizzazione

06 Apr 2017

Vincenzo Vita

La commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai sta per definire il parere sullo schema di decreto del governo in merito alla concessione del servizio pubblico, con l’annessa convenzione. Per rispetto allo spirito del tempo si parla anche di “multimediale”: parola magica vent’anni fa, soppiantata a sua volta dai linguaggi digitali. Tuttavia, meglio di niente. Il testo è discreto e -per dirla con una battuta cara a Pier Luigi Bersani- poteva andare peggio. Volteggiano, infatti, su viale Mazzini i cocciuti cavalieri della privatizzazione.

Se n’è parlato diffusamente nel bel convegno della passata settimana (tenutosi presso la Casa del Cinema di Roma su iniziativa di Renato Parascandolo) promosso da Articolo21 e Fondazione Di Vittorio con Fnsi, Slc-Cgil, Usigrai, Adrai, Eurovisioni. La relazione introduttiva di Roberto Zaccaria ha messo in luce l’ambiguità originaria del provvedimento, figlio di un artificioso ripescaggio della “convenzione”, il cui ultimo esemplare risale al 1994. Si era giustamente puntato sul contratto di servizio, vero e proprio atto negoziale dal quale diritti e doveri scaturiscono con maggiore dettaglio.  Zaccaria si è chiesto retoricamente perché non si è inserita la concessione direttamente nella recente legge 220 del 2015, quella che spostò il baricentro dal parlamento al governo. Ma lì l’intenzione era di “sorvegliare” da palazzo Chigi. Una botta di autoritarismo, senza un vero costrutto.

Nel corso del convegno sono state avanzate osservazioni puntuali sullo schema, a cominciare dall’incertezza sull’ammontare delle risorse e sulle linee di sviluppo industriale. Assenti, poi, i riferimenti essenziali per connotare un servizio pubblico: il rapporto con gli utenti, le organizzazioni della società civile, i movimenti reali. E sì, perché è opportuno mettersi in testa che il “pubblico” si differenzia dal privato non per un’improbabile lista di generi buoni o cattivi, bensì per la capacità di far crescere i fruitori, trasformandoli da tele-corpi in cittadini digitali.

Un altro limite, infatti, sta nella stucchevole riedizione della discussione sulla differenziazione tra i programmi pagati dal canone e quelli finanziati dalla pubblicità. Si sente sempre il fiato di coloro che, senza avere il coraggio di sputare il rospo, vorrebbero utilizzare la discussione per tagliare un pezzo della Rai. Tra l’altro, è utile rammentare che già l’articolo 9 del vecchio contratto di servizio chiede la pubblicazione sul sito della Rai dei programmi con le diverse finalità. Tornare sempre sullo stesso argomento è sospetto, oltre che noioso.

Più nette devono essere l’attenzione alle contraddizioni di genere e la critica alla pubblicità sessista. Siamo reduci dal battage sulla trasmissione di Paola Perego, chiusa per le volgarità contro le donne. Tuttavia, pressoché ogni giorno vengono trasmessi spot terribilmente offensivi verso l’universo femminile.

Comunque, varata la convenzione, si apra una consultazione sul contratto di servizio. Al convegno di Articolo21 il sottosegretario Giacomelli ha suggerito di non interrompere il dialogo. Sarà. Rimane, però, il problema di fondo. Serve una nuova legge, che si misuri con l’evoluzione rapidissima del sistema e chiarisca ciò che significa un servizio pubblico. Per esclusione: non ciò che si vede in ampia parte della giornata. Un teatrino sempre uguale. E basta con gli agenti plenipotenziari, che “giocano” sull’immaginario collettivo chiamandolo share.

il manifesto, 5 aprile 2017

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