Beni culturali, delitto perfetto

06 Apr 2017

Il cantiere di smontaggio della Costituzione continua alacramente nei palazzi del potere. Fallito il disegno di consegnare l’Italia in ceppi, via plebiscito, nelle capaci mani di Matteo Renzi, non si rassegna la pattuglia sperduta dei suoi ministri, recapitati in blocco nel nuovo governo come saldi di fine stagione.

E l’ordine di scuderia sembra essere: la Costituzione resti pure la stessa, ma costruiamole intorno una muraglia cinese di leggi e leggine, approvate alla spicciolata, nascoste in commi e codicilli: impossibile creare per ogni norma una mobilitazione come quella del referendum, e dunque gutta cavat lapidem. Il fiume carsico delle normette, dei trucchi di corridoio, delle furbate parlamentari, degli accordi nemmeno tanto segreti con questa o quella lobby, renderà la Costituzione un bel ricordo del tempo che fu. E potrà, finalmente, governare indisturbato il dio dei nostri giorni, il mercato.

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Il segreto è agitare una bandiera che paia innocua, e piantarla su un pacco di dinamite. I più guarderanno la bandiera, l’etichetta, la versione ufficiale; e quando la dinamite esplode, sarà già troppo tardi per rimediare ai guasti. A tutti piace la semplificazione, parola magica che apre tutte le porte; ad altri, specialmente ad Alì Babà con la sua banda, piace anche la concorrenza, un “apriti Sesamo” che dischiude i paradisi del mercato (ma anche gli inferni dell’ austerità). Ed ecco arrivare al Consiglio dei ministri un ddl sulla concorrenza, che dovrebbe parlare di energia, assicurazioni e così via, ma cova al suo interno un’ escrescenza impropria, l’ art. 68, che disciplina “la semplificazione della circolazione internazionale dei beni culturali”, intervenendo pesantemente sul Codice dei Beni culturali.

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Ma perché giocare a nascondino, quando esiste sulla carta una commissione per il riesame del Codice, istituita dal ministro Bray (governo Letta), confermata da Franceschini, e mai più riunita? Io lo so bene, perché di quella Commissione sarei (ero? fui? sognavo?) il presidente. Perché smantellare il Codice pezzo per pezzo, anziché intervenirvi organicamente? Perché fingere di non sapere che le varie norme del Codice formano un tutto organico, e che sgonfiarle a una a una delegittima l’insieme, cioè quella tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione prescritta dalla Costituzione in poche righe inequivoche (art. 9), che paiono ormai destinate a passare in soffitta?

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Il fabbricante di trappole che ha scritto l’ art. 68 sa bene che pochi andranno a leggersi il Codice negli articoli da modificare, e men che mai nella sua interezza. Donde i prevedibili scontri fra chi difende la norma in nome dei mercanti onesti (che ci sono) e chi la attacca supponendo che mercante sia sinonimo di furfante. Non aiuta a dissipare queste nebbie il ruolo che ha avuto nell’elaborazione della norma “Apollo 2”, un gruppo d’interesse formato da mercanti d’arte (secondo il Sole 24 Ore del 13 giugno 2015, il testo della norma è stato scritto da un avvocato di Sotheby’ s). Tentiamo una strada diversa, e guardiamo, almeno su qualche punto, la nuova norma in controluce su quella vigente (Silvia Truzzi ha dato ieri su questo giornale le informazioni essenziali).

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L’art.10 del Codice, in armonia con la Costituzione, definisce i beni culturali pubblici in base al loro “interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”; quanto ai privati, solo quando tale interesse sia “particolarmente importante” scattano speciali meccanismi di tutela, regolati dall’ art. 13. La nuova norma scardina alla radice questo sistema: essa si applica alle “cose, a chiunque appartenenti, che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione”. Giunge così in porto, con 15 anni di ritardo, il progetto di Berlusconi (o piuttosto Tremonti) di “alzare la soglia” della tutela riservandola solo a quanto sia di rilievo assolutamente eccezionale: nella redazione del Codice dei Beni culturali (2001-2004) il pericolo fu scongiurato dall’allora ministro Giuliano Urbani, che si rivela così più fedele alla Costituzione del suo attuale successore.

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Ma c’ è di peggio: mentre finora il criterio-guida è di natura culturale, la nuova norma cestina la storia dell’ arte e insedia al suo posto il mercato allo stato puro: basta che il proprietario di un oggetto qualsivoglia (fosse pure un disegno di Leonardo) autocertifichi che esso vale meno di 13.500 euro, e il gioco è fatto. Le Soprintendenze (già in via di estinzione per carenza di personale e di risorse) dovrebbero dare la caccia al tesoro: sarà impossibile contestare una per una la folla di esportazioni basate su autocertificazioni spesso truccate, e per evitare l’emigrazione di un’ opera d’ arte preziosa non basterà più nemmeno il vincolo già esistente, ce ne vuole uno nuovo, fondato sull’assoluta eccezionalità dell’oggetto da tutelare. Di fatto, un “liberi tutti” che calpesta l’ art. 9 della Costituzione e tutta la giurisprudenza relativa.

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La Costituzione ha concepito il patrimonio culturale della Nazione come un tutto organico, il cui vero valore è nella sua presenza diffusa, capillare, viva. Ogni singolo oggetto d’ arte ha molteplici legami con un orizzonte di presenze, di creatività, fatto non solo di prezzi e di mercato, ma di artisti e committenti, di critici e poeti, di sguardi e di pensieri. Il nostro patrimonio lo incontriamo, anche senza volerlo e senza pensarci, nelle strade, nelle case, nelle scuole e negli uffici, nelle chiese. Fa tutt’ uno con la nostra lingua, la nostra musica e letteratura, la nostra cultura.

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È la nostra linfa vitale, l’aria che respiriamo. La nuova norma trasforma l’Italia in un gigantesco magazzino di beni culturali di seconda mano, dove chiunque è invitato a entrare col carrello della spesa. A quel che pare, il ddl sarà approvato con voto di fiducia: nulla ha insegnato il precedente dello stolto Italicum, trionfalmente approvato con voto di fiducia ma bocciato dalla Corte costituzionale. Anche questa norma è destinata a raggiungere, speriamo presto, la Consulta: in essa riponiamo dunque, se il governo Gentiloni sarà sordo a ogni appello, la nostra speranza. La speranza che la Costituzione resti in vita.

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Il Fatto Quotidiano, 5 aprile 2017 

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