L’Europa deve essere politica e federale. Ma resta un’utopia

25 Mar 2017

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Il processo di unificazione Europea, di cui celebriamo il sessantesimo compleanno, ha aperto la strada a una nuova cittadinanza. Studiosi della politica e giuristi hanno abbondantemente illustrato il paradigma post-nazionale e sovranazionale della libertà politica che dissocia la cittadinanza dalla nazionalità. Si tratta di una rivoluzione non meno epocale di quella del 1789 che, per ripetere le parole di Hannah Arendt, inaugurò la “conquista dello stato da parte della nazione” e in questo modo l’inizio della democratizzazione.

La storia dell’Europa moderna conferma che mentre la formazione dello stato territoriale ha unificato il corpo dei sudditi della legge è stata la sovranità nazionale a rendere gli stati democratici. Il diritto che ha segnato questo mutamento epocale è quello di e/immigrazione, ovvero la libertà di movimento, delle persone e dei beni.

L’Unione europea nacque sulla libertà di movimento ma con un’ambiguità economica che non è scomparsa, nemmeno quando con il trattato di Lisbona la cittadinanza europea è stata consolidata da una famiglia di diritti costruiti attorno al “libero movimento” e alla “non discriminazione” tra gli Stati membri e all’interno di essi. Pur riconoscendo che l’immigrazione è un fatto fondamentale della vita umana, che riflette la ricerca di individui e collettività di migliorare la propria condizione di vita, ha scritto Ulrich Preuss, essa non mai ha di fatto tolto di mezzo le ragioni economiche per il diritto di movimento e il ruolo degli Stati membri. È vero che, comunque, le ragioni economiche non furono mai così preponderanti da bloccare lo sviluppo di decisioni riguardo la cittadinanza dell’Unione europea e da dare a quest’ultima uno status giuridico formale (il Trattato di Maastricht del 1993) e aumentarlo incrementalmente con i successivi trattati di Amsterdam (1999), Nizza (2003) e Lisbona (2009). Ma tutto questo è avvenuto prima della grande crisi finanziaria.

È stata sufficiente questa crisi a mostrare le ambiguità: il Trattato di Roma ha messo al centro il diritto di movimento delle persone e delle merci; come nella tradizione settecentesca ha associato la libertà ai fattori economici o di produzione, la cittadinanza all’apertura dei mercati.

All’inizio del processo europeo di unificazione, quell’ambiguità si applicava essenzialmente all’immigrazione interna (l’antica preoccupazione degli anni ’50 e ’60). Successivamente si è applicata all’immigrazione extracomunitaria, formando sia la politica di integrazione con gli immigrati irregolari (descritti come cittadini di Paesi terzi) sia quella della repressione con i migranti sans-papiers. Joseph Weiler ha così argomentato che “la cittadinanza europea equivale a poco più di un cinico esercizio di pubbliche relazioni e che anche il più sostanziale diritto (al libero movimento e alla residenza) non è concesso secondo uno status dell’individuo in quanto cittadino ma in ragione delle capacità dei singoli come fattori di produzione”.

Se il diritto fondamentale di libertà di movimento è così direttamente connesso a ragioni economiche – la circolazione di una forza lavoro concorrenziale – ciò significa che i confini nazionali sono interpretati e utilizzati come meccanismi funzionali a una divisione internazionale del lavoro. Essi diventano il centro del conflitto tra opposti interessi, nel senso che i lavoratori stranieri (che minacciano la classe lavoratrice di una nazione accettando di lavorare senza la stessa protezione sociale e gli stessi salari della classe lavoratrice nazionale), incontrano gli interessi di quei settori economici la cui competitività si basa sul lavoro a basso costo. Questo è stato il ragionamento (populista ma non irrazionale) che ha guidato gli elettori nel referendum su Brexit.

Questo conflitto è il cuore di ciò che James Hollifiel ha chiamato il “paradosso liberale”, il fatto che una società democratica basata sul libero mercato e sulla libertà di movimento conserva un tratto di chiusura legale al fine di proteggere il contratto sociale tra lavoro e capitale, così riconoscendo che il proprio welfare presuppone una società chiusa e uniforme. Strategie di chiusura legale non sono necessariamente e brutalmente di tipo diretto (bloccando i confini, incarcerando e rimpatriando gli immigrati irregolari). Di fatto, sono strategie per la maggior parte indirette, in modo particolare quando sono rivolte agli immigrati regolari, per esempio limitando i loro diritti civili e sociali, rendendo loro difficile la naturalizzazione, restringendo il loro accesso ai servizi sociali o impedendo i ricongiungimenti familiari. Dunque, per gli Stati europei, e ora anche per l’Unione europea, riguadagnare il controllo dei propri confini equivale ad ammettere che “il controllo dell’immigrazione può richiedere una riduzione dei diritti civili e dei diritti umani per i non cittadini”.

È sull’immigrazione che si gioca quindi il futuro dell’Unione: su questo diritto è sorta e su questo stesso diritto può cadere se lascerà che i singoli stati membri regolino le loro politiche delle frontiere in maniera nazionalistica (come del resto stanno già facendo ad Est). Non sembrano esserci altre soluzioni al problema europeo: perché l’Unione sopravviva deve farsi politica e avere un potere federale capace di imporsi ai governi degli stati membri. Una soluzione più utopistica oggi di sessant’anni fa, nonostante quell’Europa venisse da una carneficina mondiale e questa da sei decenni di pace.

Huffingtonpost.it, 25 Marzo 2017

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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