Il pm Nino Di Matteo alla Dna di Roma: il via libera del Csm dopo due bocciature

18 Mar 2017

Lo avevano tenuto fuori preferendogli magistrati più esperti nella conoscenza dell’ inglese e nell’ uso di Skype, ritenuti più importanti dell’ esperienza maturata in 17 anni di processi di mafia; lo avevano bocciato di nuovo, in modo più beffardo nell’ agosto scorso, perché alla sua domanda “non era stata allegata l’ attestazione sul richiesto parere attitudinale e non era stato utilizzato il modulo previsto dal Testo Unico della dirigenza”: adesso, al terzo tentativo, Nino Di Matteo, palermitano, 56 anni, il pm più scortato d’ Italia, l’ uomo di punta delle indagini sulla trattativa Stato-mafia che Riina dal carcere ha condannato a morte, ottiene il semaforo verde del plenum del Csm al trasferimento in via Giulia, a Roma, sede della Direzione Nazionale Antimafia.

Il plenum di Palazzo dei Marescialli gli ha assegnato la valutazione più alta (15 punti) per le “ottime qualità professionali” e il “solido e vasto bagaglio di esperienza” maturato nelle indagini sulla criminalità organizzata e nella gestione dei collaboratori di giustizia (da Giovanni Brusca a Salvatore Cancemi), giudizio finalmente lusinghiero fondato anche sulla scheda professionale del Consiglio giudiziario e di chi ha lavorato con lui in posizione gerarchicamente sovraordinata che hanno attestato oltre alle “capacità di coordinamento e impulso investigativo”, “l’impareggiabile tenacia” e “l’ineguagliabile spirito di sacrificio”.

Dopo 18 anni trascorsi al secondo (all’ inizio era il terzo) piano del palazzo di Giustizia di Palermo Di Matteo lascia la Procura di Palermo, dove è approdato nel 1999 da Caltanissetta, con l’ esperienza di cinque anni di indagini sulle stragi di Capaci e di via D’ Amelio. E a Roma, in via Giulia, ritroverà un altro dei colleghi di quella stagione, Francesco Polino, anch’ egli vincitore di uno dei cinque posti messi a concorso dal Csm, unico pm, insieme al procuratore Giovanni Tinebra e all’ aggiunto Paolo Giordano, di quella procura che nel ’92 si trovò improvvisamente ad affrontare il carico investigativo delle stragi palermitane.

La sua assegnazione ha una storia tormentata segnata dalle polemiche: per due volte il Csm gli ha negato il via libera, proponendo, in un’ occasione, un trasferimento per ragioni di sicurezza: titolare di indagini delicatissime sul versante delle relazioni occulte tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, Nino Di Matteo è stato minacciato dal carcere da Totò Riina, che ha giurato di fargli fare “la fine del tonno”, destinate a lui sono state acquistate dalla mafia alcune centinaia di chili di tritolo, nascosto a Palermo, come ha raccontato il pentito Vito Galatolo, e l’ ultimo allarme è arrivato qualche mese fa, quando un’ intercettazione ha sorpreso un boss confidare alla moglie: “Lo devono ammazzare”. Allarmi che hanno indotto il Viminale, dopo parecchi ritardi, a dotare la sua scorta di un sistema di sorveglianza speciale che prevede l’ uso del bomb jammer, un dispositivo che neutralizza le attivazioni a distanza dei telecomandi.

Ma Di Matteo ha sempre rifiutato il trasferimento per motivi di sicurezza per non dare un segnale di resa alla mafia, spiegando che la sua aspirazione professionale era “quella di andare alla Dna: ma ritengo giusto che ciò debba avvenire solo se e quando venissi nominato in esito a una normale procedura concorsuale”. E quando lo bocciarono reagì con un ricorso al Tar del Lazio, lamentando di aver subito “un’ ingiusta mortificazione”.

Lo scontro con il Csm si era fatto rovente dopo un’ intervista rilasciata nel 2014 sulle telefonate intercettate dalla Procura tra Nicola Mancino e Giorgio Napolitano, allora capo dello Stato e a capo, anche, del Csm: in quell’ occasione Palazzo dei Marescialli lo sottopose a un procedimento disciplinare, concluso con il suo proscioglimento.

Quell’ anno, dal palco di via D’ Amelio, nell’ anniversario della strage, Di Matteo accusò Napolitano di condizionare le scelte del Csm, e Matteo Renzi di progettare le riforme con un politico condannato per “gravi reati”, riferendosi a Berlusconi. Adesso la vicenda si chiude nel modo migliore: Di Matteo va a Roma lasciandosi alle spalle anche le voci di una sua candidatura alle elezioni regionali in Sicilia con i 5Stelle, ipotesi smentita dal movimento di Grillo e da lui mai commentata.

Per circa due mesi, adesso, resterà a Palermo a condurre da pm le udienze nell’ aula bunker, nel processo della Trattativa, del quale, in prospettiva, dovrebbe tornare a occuparsi. La ‘palla’ passa adesso, infatti, al procuratore Lo Voi che potrebbe richiederne l’ applicazione al suo collega ed omologo romano, Franco Roberti.

Il Fatto Quotidiano, 16 Marzo 2017

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