CONSIDERAZIONI SU ALCUNE PECULIARITà DI UN REFEReNDUM*

11 Mar 2017

0. Introduzione. L´esito del recente referendum costituzionale italiano, tenutosi il 4 Dicembre 2016, ha suscitato perplessità e interrogativi ai quali mi pare finora non siano state trovate rispose soddisfacenti, anche se sembrano al contrario essere stati rapidamente rimossi nella discussione pubblica: come se per accordo tacito generale l´incredibile mobilitazione governativa e parlamentare durata quasi un anno a favore del “SI”, con la sospensione e il rinvio di tutta l´attività politica che essa ha comportato, non fosse mai avvenuta: una strana, insolitamente concorde rimozione. Per parte mia, vorrei invece tentare di riflettere su questo evento politico. Vorrei considerare in particolare i seguenti problemi : 1) se tale esito si possa vedere come la specifica manifestazione italiana delle tendenze “populistiche” già rivelatesi nel 2016, il 23 giugno, con il referendum su “Brexit”, la permanenza o uscita del Regno Unito dall´Unione Europea; e con l´inattesa vittoria di Donald Trump, un outsider nel suo stesso partito (il Partito Repubblicano) nelle elezioni presidenziali statunitensi dell´8 Novembre 2016, nemmeno un mese prima del referendum italiano. 2) Come interpretare l´esito del referendum: l´alta partecipazione (65, 47%), nettamente più elevata di quella dei due referendum costituzionali precedenti, del 7 Ottobre 2001 (34, 05%) e del 25-26 Giugno 2006 (52, 46%) rispettivamente, e la varietà nella proporzione dei “SI” e “NO” per classi di età, per categorie sociali, e soprattutto per regioni hanno indotto molti commentatori (vedi ad esempio l´informativo Comunicato stampa dell´Istituto Cattaneo Referendum “sociale” o costituzionale?, pubblicato nel suo sito il 5 Dicembre 2016) a sostenere che in realtà gli elettori si sono espressi non sul merito del referendum, ma sulla condotta del governo Renzi, o più in generale, sul grado di soddisfazione per le loro condizioni di vita. Ma come distinguere, mediante l´analisi quantitativa, tra queste due ipotesi? Inoltre, il problema dell´interpretazione va distinto da quello della spiegazione dell´esito del referendum. E’ perfettamente concepibile che si possa giungere a una buona spiegazione statistica della distribuzione regionale o provinciale dei SI e dei NO senza poter dissipare i dubbi su ciò a cui la gente ha risposto con un SI o un NO. 3) Da ultimo, si pone la domanda sulle condizioni alle quali un referendum costituzionale possa essere un efficace metodo di consultazione del popolo e, dall´altro lato, di espressione dei suoi orientamenti. Evidentemente gli interrogativi 1), 2) e 3) sono legati tra loro. Ad esempio, si potrebbe sostenere che una risposa a 1), e forse anche a 3) presuppone quella a 2). Ma mi sembra che se ne possa tener conto nella discussione, e che l´ordine espositivo si avvantaggi da una partenza da 1).

1. Il populismo. Se si potesse accertare che l´elettorato ha approfittato di questa occasione per esprimere il suo malcontento, ignorando del tutto i contenuti del referendum, allora questa consultazione sarebbe in un certo senso una manifestazione di “populismo”: il popolo avrebbe ignorato le regole e quindi anche il significato della consultazione, per imporne altri. Ma, come vedremo, data la complessità degli argomenti su cui il referendum verteva, e la poderosità dello sforzo governativo a favore del “SI”, oltre che l´estrema personalizzazione impressa dal Presidente del Consiglio alla volutamente lunga campagna referendaria, sembra difficile attribuire ai votanti una volontaria forzatura delle regole e della natura della consultazione: di aver voluto andare fuori tema. Alternativamente, si potrebbe supporre di poter vedere nell´esito del referendum: la vittoria schiacciante dei ”NO”, un´espressione di populismo: il governo avrebbe offerto alla cittadinanza un´occasione di svecchiare le proprie istituzioni politiche, rendendo più efficiente l´intero sistema politico, e il popolo avrebbe respinto tale illuminata proposta. La gente si sarebbe espressa in massa per l´alternativa “sbagliata”, come i britannici per Brexit, e gli statunitensi per Trump. Molti osservatori stranieri hanno interpretato così l´esito del referendum. E’ interessante notare che nel seguente giudizio dell´Istituto Cattaneo nella sua analisi del voto, condotta nel succitato Comunicato sono compresi elementi di entrambe le alternative (che esso manca dunque di distinguere).

Il voto contro l’establishment, in opposizione alla classe di governo di turno, ha trovato un nuovo canale di espressione nel referendum costituzionale, trasformando un giudizio sulla riforma della Costituzione in una valutazione sull’operato del governo Renzi e sulla condizione sociale degli elettori. Se ogni occasione elettorale è buon per esprimere la propria insoddisfazione, anche un referendum costituzionale può trasformarsi in un referendum “sociale”.

Ma, volendo ora considerare la seconda alternativa, in primo luogo, si tratterebbe casomai di conservatorismo, non di populismo. In secondo luogo, vi erano molti ragionevoli dubbi non sulle intenzioni e sui fini dichiarati dei riformatori, ma sulla qualità della riforma: se cioè questa fosse atta a conseguire quei fini. Dunque il NO può essere provenuto da elettori non di per se ostili alle riforme costituzionali.

Resta inoltre da intendersi sulla nozione corrente di “populismo”, alquanto diversa dalle precedenti accezioni di questo termine (il populismo russo, il populismo jacksoniano, il populismo peronista), anche se non incompatibile con esse. Per “populismo” si intende oggi l´atteggiamento ideologico-politico di chi individua esigenze popolari che le classi dirigenti, i governi, le istituzioni pubbliche hanno ignorato, e propone per soddisfarle soluzioni semplicistiche ed errate, anche se in pieno accordo con opinioni e credenze largamene diffuse nella popolazione. Il muro alla frontiera con il Messico proposto da Trump sarebbe un buon esempio: come anche le sue proposte protezionistiche e autarchiche. Un´altra componente della sua campagna elettorale, l´uso sistematico del menzogna, non rientrerebbe: ma forse vi è un implicito connotato populista nel fenomeno della “post-verità”, di cui il signor Trump è il principale protagonista: gli enunciati della post-verità sono in accordo con pregiudizi popolari, che essi alimentano e dai quali, al contempo, traggono conferma. Sulla scorta di questa definizione, è tutto fuori che evidente che l´esito del nostro referendum si inquadri in questa tendenza: e dovremo riprendere l´argomento dopo aver affrontato la domanda 2), come ora mi accingo a fare.

2. La riforma costituzionale. Darò uno schizzo estremamente sintetico della riforma costituzionale approvata dalle due Camere, ma non con la maggioranza di almeno i 2/3, e di cui pertanto, a norma dell´art. 138 della Costituzione, un gruppo di parlamentari di opposizione ha potuto chiedere il rinvio ad una consultazione popolare. Dobbiamo ricordare il punto d`avvio della legge di riforma: la circostanza largamente anche se non universalmente condivisa che le nostre istituzioni politiche, che dovrebbero aiutare il paese ad affrontare e risolvere efficacemente e tempestivamente i suoi problemi, ne costituiscono invece un freno e un inciampo (tra coloro che non la condividevano, ricorderò ad esempio Giorgio La Malfa e Mario Monti). I punti principali erano: a) la correzione del bi-cameralismo simmetrico (cioè del fatto che le due Camere hanno uguali poteri); b) una ridistribuzione delle competenze tra Stato e regioni, a sfavore di queste ultime (una modifica che sarebbe andata in senso opposto alla riforma costituzionale del 2001, approvata e tuttora in vigore, e alla proposta, respinta dalla consultazione popolare, del 2006: la proposta, fortemente voluta dalla Lega, della famosa “devolution”.) Queste due linee di intervento, in se indipendenti l´ una dall´ altra, venivano però a incrociarsi in modo ambizioso ma alquanto discutibile: c) al Senato non si toglieva semplicemente il potere di accordare la fiducia al governo; se ne limitavano i poteri legislativi e soprattutto se ne cambiava la natura: doveva diventare un organo di rappresentanza delle regioni (per compensare b)) e doveva cambiare la sua base elettiva: i senatori sarebbero stati scelti in un´elezione di secondo grado, dai consigli regionali tra i loro membri. Ritenuta da alcuni un`idea geniale, c) suscitò forti perplessità e opposizioni da parte di altri: perché caso mai l´ obiettivo di un rinnovato regionalismo avrebbe dovuto comportare delle vere elezioni da parte dei cittadini delle regioni. Non che a) e b) fossero esenti da plausibili critiche. Ad esempio, la tesi che il bicameralismo simmetrico fosse per sua natura un freno ai lavori parlamentari non fu mai dotata di argomentazioni convincenti. Allo stesso modo, si andava con l´accetta nello stabilire il primato dello Stato sulle regioni in b). Ma le perplessità più forti vertevano su c), proprio l´idea più qualificante del progetto: anche perché la determinazione delle modalità specifiche delle elezioni di secondo grado venivano rinviate a una successiva legge ordinaria, e si sarebbe, per questo aspetto, dovuto votare alla cieca. In complesso, la legge di riforma incideva su 47 articoli della Costituzione: un po’ più di un terzo dei totali 139.

3. L´esito del Referendum del 2016. La legge di riforma costituzionale fu il 4 Dicembre 2016 respinta da una maggioranza schiacciante: del 59, 11% dei votanti (e del 59, 95% dei voti validi), una percentuale di NO solo lievemente inferiore a quella con cui era stata respinta il 25 e 26 Giugno 2006 la proposta di riforma Berlusconi-Bossi (61, 29% ) o quella con cui era stata approvata quella sulla modifica del titolo V della Costituzione del il 7 Ottobre 2001 (64, 21 %). Guardando la seguente tabella, salta agli occhi la variabilità regionale dei risultati, sia per quanto riguarda la partecipazione al voto, sia per quanto riguarda la distribuzione delle percentuali dei “SI” e dei “NO”.

Tabella 1: i risultati del Referendum 4/12/2016. Fonte: Wikipedia, Referendum costituzionale del 2016 in Italia, e Archivio Storico delle Votazioni del Ministero degli Interni.

Regione % Votanti % SI % NO
Piemonte 72, 03 43, 53 56, 47
Valle d´Aosta 71, 90 43, 25 56, 75
TrentinoAA 72, 23 53, 87 46, 13
Lombardia 74, 22 44, 51 55, 49
Veneto 76, 66 38, 06 61, 94
FriuliVG 72, 5 39 61
Liguria 69, 7 39, 9 60, 1
EmiliaR 75, 9 50, 4 49, 6
Toscana 74, 5 52, 5 47, 5
Umbria 73, 5 48, 8 51, 2
Marche 72, 8 41, 6 58, 4
Lazio 53, 61 36, 8 63, 2
Abruzzo 68, 7 35, 6 64, 4
Molise 63, 9 39, 2 60, 8
Campania 58, 9 31, 5 68, 5
Puglia 61, 7 32, 8 67, 2
Basilicata 62, 85 34, 11 65, 89
Calabria 54, 4 32, 98 67, 02
Sicilia 56, 65 28, 42 71, 58
Sardegna 62, 45 27, 78 72, 22
Italia 65, 47 40,8 9 59, 11

E’ interessante riaggregare per le tre classiche ripartizioni del paese, Nord, Centro (EmiliaR, Toscana, Umbria, Lazio, Marche) e Sud (Abruzzo, Molise, Basilicata, Campania, Calabria, Puglia, Sicilia, Sardegna). Si noti che, poiché la media aritmetica delle percentuali non è in generale uguale alla percentuale media, per effettuare la riaggregazione bisogna disporre dei numeri assoluti dei votanti e degli aventi diritto al voto. Otteniamo allora

Tabella 2: i risultati del Referendum del 2016 per grandi ripartizioni territoriali. Fonte: elaborazione personale di dati disponibili presso l´Archivio storico delle Elezioni del Ministero degli Interni.

Ripartizioni %Votanti %SI %NO
Nord 73,8 42, 73 57, 27
Centro 72, 76 45, 66 54, 34
Sud 6 1, 44 31, 37 68, 63
Italia 65, 47 40, 89 59, 11

La varietà regionale nella partecipazione al referendum, oggetto di un interessante Comunicato stampa dell´Istituto Cattaneo (“Referendum 4 Dicembre 2016: La partecipazione elettorale al referendum costituzionale”, 5 Dicembre 2016), non dovrebbe stupire. Da sempre è più bassa nelle regioni del Sud. Anzi è notevole che, come si può verificare nella Tab. 1, in ogni regione si sia superato il 50%, ciò che non era avvenuto nelle due consultazioni precedenti (si vedano le Tabelle 3 e 4, avanti.) In effetti risulta dalla Tabella 2 che la partecipazione nel Sud è stata inferiore a quella del Nord e del Centro di più di 10 punti percentuali, ma superiore al 60%! La varietà nella distribuzione regionale dei “SI” e dei “NO”, che trova la sua più chiara manifestazione al livello intermedio delle tre grandi ripartizioni territoriali (anche qui un scarto del Sud di più di 10 punti percentuali rispetto alle altre due grandi aree del Paese), è decisamente più problematica. Dato che la legge sottoposta agli elettori verte su riforme nell´organizzazione dello Stato, e non su temi di interesse locale, ci si sarebbe potuto aspettare una certa uniformità tra regioni e raggruppamenti nella distribuzione dei “SI” e i “NO”. E questa aspettativa è in parte confermata dall´esperienza. Ad esempio, la corrispondente tabella per il 2001 è

Tabella 3: i risultati del Referendum del 7 Ottobre 2001. Fonte: Archivio Storico delle Elezioni del Ministero dell´Interno.

Regione % Votanti % SI % NO
Piemonte 37,62 64,80 35,20
Valled´Aosta 32, 67 46, 34 53, 66
TRAltoAdige 46, 76 78, 68 21, 32
Lombardia 37, 29 59, 53 40, 47
Veneto 40, 71 57, 72 42, 28
FriuliVG 34, 25 63, 14 36, 86
Liguria 35, 88 68, 19 31, 81
EmiliaR 48, 12 74, 10 25, 90
Toscana 43, 04 71, 83 28, 17
Umbria 37, 62 65, 86 34, 14
Marche 37, 78 67, 22 32, 78
Lazio 34, 44 61, 08 38, 92
Abruzzi 30, 99 60, 85 39, 15
Molise 27, 25 60, 16 39, 84
Campania 24, 74 63, 32 36, 68
Puglia 26, 63 62, 44 37, 56
Basilicata 26, 63 66, 46 35, 54
Calabria 20, 03 63, 90 36, 10
Sicilia 24, 69 59, 10 40, 90
Sardegna 24, 41 70, 16 29, 84
Italia 34, 05 64, 21 35, 79

dalla quale si può rilevare la solita varietà regionale dei tassi di partecipazione, ma una certa uniformità nella distribuzione regionale di consensi e dissensi. Ad esempio, delle 19 regioni, 14 hanno votato per il SI con percentuali interne alla fascia (59, 70). Se si guardassero i risultati dei referendum abrogativi (ad esempio quelli del 12-13 Giugno 2011) si potrebbe notare la solita varietà nella partecipazione, e una uniformità regionale di consensi e dissensi molto maggiore del referendum del 2001. Nel referendum abrogativo del 17 Aprile 2017 (sulle trivellazioni: il quorum non fu raggiunto) le percentuali dei SI oscillarono tra l´80 e il 95 %, dove tutte le regioni con rilevante sviluppo costiero furano più vicine all´estremo superiore, quelle al riparo dalle trivellazioni all´estremo inferiore.

Se dunque l’aspettativa a priori di uniformità tra regioni fosse ben confermato dall´evidenza, si potrebbe concludere che la differenziazione regionale delle risposte del 2016 è un indice sicuro del fatto che i votanti non stessero rispondendo ai quesiti referendari.

4. L`esito del Referendum del 2006. Considerando i risultati della consultazione referendaria del 2006, esposti nella Tabella 4,

Tabella 4: i risultati del Referendum del 25 e 26 Giugno 2006. Fonte: Wikipedia, Referendum costituzionale del 2006 in Italia.

Regione % Votanti % SI % NO
Piemonte 58, 2 43, 33 56, 67
Valled´Aosta 50, 52 35, 70 64, 30
TRAltoAdige 48, 04 35, 45 65, 55
Lombardia 60, 63 54, 55 45, 45
Veneto 62, 3 57, 72 42, 28
FriuliVG 57, 76 49, 19 50, 81
Liguria 58, 18 37, 01 62, 99
EmiliaR 64, 29 33, 54 66, 46
Toscana 61, 73 29, 05 70, 95
Umbria 59, 17 31, 41 68, 59
Marche 58, 30 33, 95 66, 05
Lazio 53, 61 34, 50 65, 50
Abruzzo 53, 49 33, 45 66, 55
Molise 49, 71 28, 94 71, 06
Campania 40, 87 24, 67 75, 33
Puglia 43, 31 26, 56 73, 44
Basilicata 45, 41 22, 88 77, 12
Calabria 42, 63 17, 55 82, 25
Sicilia 43, 61 30, 03 69, 97
Sardegna 46, 72 27, 86 72, 14
Italia 54, 53 38, 35 61, 65

notiamo però che essi non confermano l´ipotesi di uniformità regionale nei giudizi. Il grado di differenziazione appare qui anche più elevato che nel Referendum del 2016. Invero, secondo i calcoli comunicatemi dal Prof. Alfredo Del Monte , usando il coefficiente di variazione (scarto quadratico medio diviso la media) come indice di variabilità, si trova 0, 128 per il 2016, 0, 158 per il 2006. Compiendo il solito oneroso lavoro di parziale riaggregazione, troviamo:

Tabella 5: i risultati del Referendum del 2006 per grandi ripartizioni territoriali. Fonte: elaborazione personale su dati dell´Archivio Storico delle Elezioni del Ministero degli Interni.

Ripartizioni %Votanti %SI %NO
Nord 60, 23 50, 24 49, 76
Centro 61, 10 32, 67 67, 33
Sud 43, 69 26, 69 73, 31
Italia 54, 53 38, 35 61, 65

L´esame delle Tabelle 3 e 5 consente un primo interessante confronto tra i referendum del 2006 e 2016. 1) La partecipazione è aumentata dal 2006 al 2016 di circa 15 punti percentuali; 2) la partecipazione è simile tra Nord e Centro, mentre c´è un netto scarto in discesa tra il Centro-Nord e Sud, in entrambi i referendum; 3) mentre nel Referendum del 2016 la partecipazione è decrescente da Nord a Sud, nel Referendum del 2006 la massima partecipazione è al Centro, ma qui è la percentuale dei SI che risulta decrescente da Nord a Sud; 4) più specificamente, mentre nel 2016 la proposta di riforma viene respinta in tutte e tre le grandi ripartizioni territoriali del Paese, nel 2006 il Nord aveva, sia pur di stretta misura, approvato la riforma Berlusconi-Bossi; 5) mentre la percentuale dei SI è nel 2016 simile nel Nord e nel Centro, con il suo massimo al Centro, nel 2006 la percentuale dei SI si riduce di circa 18 punti percentuali passando dal Nord al Centro, e di circa altri 8 passando dal Centro al Sud. Parrebbe che il blocco Centro-Sud abbia respinto nel 2006 qualche aspetto del referendum, e non è difficile congetturare che si tratti della famosa “devolution”, il trasferimento delle competenze legislative in materia soprattutto di sanità e istruzione dallo Stato alle Regioni. Commentando una variante della Tab. 4, il Comunicato stampa Referendum Costituzionale 2006, Luglio 2006, dell´Istituto Cattaneo osserva:

I casi della Lombardia e del Veneto, che risultano simbolicamente significativi perché il SI ha superato il 50% dei voti validamente espressi, si inseriscono in una tendenza nazionale assolutamente lineare. Questa tendenza ci dice che le dimensione della vittoria del NO si spiegano con il diverso grado di fiducia dell´autogoverno regionale e con la diversa intensità con cui la “devoluzione” è stata percepita come un rischio per il proprio benessere,

un’affermazione che la costruzione della Tab. 5, con la scoperta che la riforma fu approvata al Nord, non può che rafforzare. Dopo tutto la “devolution” era stata voluta dalla Lega Nord, il partito che poneva la liberazione fiscale del Nord dal giogo dello Stato centrale al centro del suo programma politico. Questa congettura sarà come vedremo confermata dal confronto con i risultati delle elezioni politiche del 2006. Allo stesso modo, si potrebbe pensare che nel 2016 il Sud, protagonista dell´opposizione alla riforma costituzionale del 2016 non meno che del 2006 (vedi Tab. 2), si sia opposto decisamente a qualche aspetto della riforma costituzionale proposta, ma non è evidente di quale si possa trattare. Ad esempio, la riforma Renzi-Boschi prevedeva un forte riaccentramento nelle competenze legislative tra Stato e Regioni, e questo avrebbe dovuto essere bene accolto al Sud (e al Centro). In conclusione, la difformità regionale nei giudizi sulla riforma del 2006 può trovare la sua spiegazione in un aspetto di quella riforma che incideva in modo differenziato negli interessi delle regioni italiane, in un modo sgradito a quelle del Centro e ancor più del Sud. Tale difformità può ben essere interpretata come una risposta differenziata ma pienamente pertinente al referendum. L´analoga difformità del 2016 resta da spiegare.

5. La distribuzione dei giudizi per classi di età e categorie sociali. Una interessante ricerca realizzata da Demos&PI-Oss.Elettorale per la Polis (Università di Urbino) e pubblicata il 6 Dicembre nell´Atlante politico n. 61 di Demos e su Repubblica consente di cogliere impressionanti difformità nei giudizi espressi dalle diverse classi di età e categorie sociali, come esposto nelle seguenti due tabelle.

Tabella 6: Classi di età

Cl. di età %SI %NO
18-29 39 61
30-44 31 69
45-54 33 67
54-64 46 54
>65 54 46

Tabella 7: categorie professionali e sociali.

Categorie sociali % SI % NO
Pensionati 55 45
Lib. professionisti 38 62
Impiegati, tecnici, insegnanti 38 62
Operai 34 66
Casalinghe 42 58
Disoccupati 28 72
Lav. autonomi, imprenditori 24 76
Studenti 42 58

Entrambe le tabelle suggeriscono l´esistenza di problemi e insoddisfazioni specifici dei diversi gruppi, piuttosto che tentativi di rispondere al referendum. Pare difficile capire l´estrema avversione alla riforma manifestata da “lavoratori autonomi e imprenditori”, ad esempio, maggiore di quella degli “operai”, se dovesse riflettere un giudizio ponderato sulla proposta stessa. Coloro che hanno lasciato la dura lotta per la vita, gli oltre 65-enni della Tab. 6, e i pensionati della Tab. 7 (in gran parte si tratta dello stesso gruppo sociale) possono considerare la proposta con maggiore equanimità e la promuovono. Mentre la costruzione della Tabella 6 è impeccabile, vi è forse un´inesattezza nella Tabella 7. “Disoccupato” è una condizione in cui un qualunque appartenente alle forze di lavoro può trovarsi, non una categoria sociale. Ne’ sembra probabile che i membri di alcune altre, vere, categorie, quali “impiegati, tecnici e insegnanti” e “operai” siano per costruzione tutti occupati. E’ stato possibile (al Prof. A. Del Monte dell´Università Federico II di Napoli, in un suo lavoro non pubblicato che mi ha concesso di consultare) arricchire la Tabella 6 come segue:

Tabella 8

Cl. di età Tasso di disoc. %NO
18-29 31, 4 61
30-44 10, 6 69
45-54 8, 4 67
55-64 5, 5 54
>65 46

E dalla Tabella 8 si nota intanto la classica struttura dell´occupazione in Italia, fortemente sbilanciata a favore delle classi di lavoratori più anziani, e la presenza di una parziale correlazione positiva tra percentuale dei NO e tasso di disoccupazione. Il tasso di disoccupazione interviene come variabile esplicativa: sarebbe il loro stato di disoccupati che avrebbe spinto molti a votare NO. Allo stesso modo, sono i più anziani, non i più giovani, che sono maggiormente propensi ad accettare la riforma, presentata dai suoi propugnatori come svecchiante e innovativa.

6. Confronti di risultati di referendum e elezioni politiche contigue. Le condizioni di vita devono riflettersi in opinioni politiche per dare poi luogo a deliberazioni elettorali. Si potrebbero allora considerare direttamente le opinioni politiche degli elettori, come espresse in alcune votazioni di poco precedenti o contemporanee. Per il referendum del 4 Dicembre 2016 il termine di confronto più significativo è costituito dalle elezioni politiche del 24 e 25 Febbraio 2013; per quello del 25 e 26 Giugno 2006 dalle elezioni politiche del 9 e 10 Aprile di quello stesso anno. Nelle elezioni politiche si manifestano le preferenze degli elettori per i partiti politici, che a loro volta di solito assumono posizioni ben definite sulle opzioni referendarie sulle quali cercano anzi di mobilitare i loro seguaci. Un voto ad un referendum in conformità con le indicazioni del partito per cui si è votato può significare coerenza (o almeno permanenza) nei propri orientamenti politici, e anche il fatto che si è disposti in un campo così complesso come quello costituzionale a seguire le indicazioni del partito al quale in una precedente elezione si è accordata la propria fiducia. In questo senso, l´esito di un referendum che risultasse conforme agli inviti dei partiti di propria precedente scelta potrebbe essere visto non come un modo per piegare il quesito referendario ai propri fini espressivi, ma al contrario come l´attuazione di una meditata delega ai partiti di elezione. E poiché i principali partiti hanno carattere nazionale (compresa La Lega Nord), da una forte presa dei partiti sull´opinione degli elettori dovrebbe seguire l´uniformità regionale nelle risposte al referendum. I partiti presenti nelle elezioni politiche che si sono in occasione del referendum del 2016 schierati per il NO (“FPNO”) sono stati: quelli a sinistra del Pd (Sel e Rivoluzione Civile), quelli del centro-destra (PDL, LN) e il nuovo venuto del 2013, il Movimento 5*.

Tabella 9: confronto tra % voti alle FPNO nel 2013 e voti per il NO nel referendum del 2016. Fonte: Istituto Cattaneo, Comunicato stampa Voto per il NO e voto alle elezioni politiche del 2013, 5 Dicembre 2016 (a cura di Filippo Tronconi).

Regione % FPNO2013 %No2016 %NO2016 – %FPNO2013
Piemonte 60, 1 56, 5 -3, 6
Valle d’Aosta
TRAltoAdige 35, 5 46, 1 10, 6
Lombardia 59, 2 55, 5 -3, 7
Veneto 60, 5 61, 9 1, 4
FriuliVG 59, 6 61 1, 4
Liguria 60, 4 60, 1 -0, 3
EmiliaR 50 49, 6 -0, 4
Toscana 51, 1 47, 5 -3, 6
Umbria 56, 8 51, 2 -5, 6
Marche 58, 4 55, 1 -3, 3
Lazio 62, 1 63, 3 1, 2
Abruzzi 65, 2 64, 4 -0, 8
Molise 64, 8 60, 8 -4
Campania 62, 3 68, 5 6, 2
Puglia 66, 5 67, 2 0, 7
Basilicata 56, 2 65, 9 9, 7
Calabria 61, 2 67 5, 8
Sicilia 69, 8 71, 6 1, 8
Sardegna 59, 3 72, 2 12, 9
Italia 59, 7 59, 5 -0, 2

La distribuzione dei voti tra i partiti votati nel 2013 che nel 2016 si espressero pro e contro la riforma come si può notare abbastanza uniforme. Ad esempio ignorando il TrentinoAA il distacco tra la massima e la minima percentuale di voti raccolti nel 2013 dalle FPNO è di 69, 8 – 50 = 19, 8 punti percentuali, mentre il corrispondente distacco al referendum del 2016 è di 72, 2 – 47, 5 = 24, 7 punti percentuali. Vi è dunque una tendenza alla differenziazione nel referendum. Parrebbe aver agito un principio di conservazione: sono andati al NO nel 2016 quasi esattamente tanti voti, in percentuale, quanti andarono alle FPNO nel 2013. Ma vi è stata una rilevante redistribuzione di questa percentuale (quasi il 60%) tra regioni. Il NO avanza nelle regioni meridionali, tranne Abruzzo e Molise; il SI avanza in tutte le regioni del Centro, tranne il Lazio; ma non abbastanza, in Umbria e nelle Marche, per rovesciare la posizione iniziale. Il rovesciamento invece avviene in EmiliaR e in Toscana, che si dichiarano per il SI. Nel Nord, vi è una maggior varietà di risultati. In Piemonte e Lombardia e Liguria, vi sono degli scarti negativi per il NO, ma non sufficienti a determinare l´esito, che resta NO. In Veneto e FriuliVG invece, vi è uno scarto a favore del NO. Dunque se si fossero usati i voti conseguiti nel 2013 dalle FPNO per predire l´esito del referendum costituzionale del 2016, si sarebbe errato solo per la Toscana.

Vediamo ora il rapporto tra risultati delle elezioni politiche (del 24 e 25 Febbraio 2006) e referendum costituzionale (del 25 e 26 Giugno 2006).

Tabella 10: confronto tra la % dei voti alla coalizione di centro-destra nelle elezioni politiche del 2006 e % dei SI al Referendum del 2006. Fonte: Istituto Catteneo, Comunicato stampa Referendum costituzionale del 2006, Luglio 2006 (a cura di Salvatore Vassallo).

Regione %CD06 %CS06 %SI06 %NO06 %SI06 – %CD06
Piemonte 50, 0 50, 0 43, 4 56, 6 -6, 6
Valled´A
TrentAA 36, 3 63, 7 35, 3 64, 7 -1
Lombardia 56, 9 43, 1 54, 6 45, 4 -2, 3
Veneto 58, 6 41, 4 55, 3 44, 7 -3, 3
FriuliVG 54, 9 45, 1 49, 2 50, 8 -5, 7
Liguria 46, 4 53, 6 37, 0 63, 0 -9, 4
EmiliaR 40, 1 59, 9 33, 5 66, 5 -6, 6
Toscana 38, 3 61, 7 29, 0 71, 0 -9, 3
Umbria 42, 5 57, 5 31, 3 68, 7 -11, 2
Marche 44, 8 55, 2 33, 9 66, 1 -10, 9
Lazio 49, 9 50, 1 34, 6 65, 4 -15, 3
Abruzzo 47, 1 52, 9 33, 3 66, 7 -13, 8
Molise 49, 1 50, 9 28, 3 71, 7 -20, 8
Campania 48, 9 51, 1 24, 7 75, 3 -24, 2
Puglia 51, 6 48, 4 26, 5 73,5 -25, 1
Basilicata 39, 7 60, 3 23, 1 76, 9 -16, 6
Calabria 43, 0 57, 0 17, 5 82, 5 -25, 5
Sicilia 58, 0 42, 20 30, 1 69, 9 -27, 9
Sardegna 46, 4 53, 6 27, 7 72, 3 -18, 7
Italia 49, 74 49, 81 38, 35 61, 65 -11, 39

Dalla tabella si evince che il referendum del 2006 è stato una vera debacle per la coalizione di Centro-Destra, che ha perso i “suoi” voti ovunque, in percentuali che procedono più o meno in progressione geometrica procedendo da Nord Sud. Procedendo alla solita riaggregazione parziale troviamo la

Tabella 11: confronto tra la % dei voti alla coalizione di centro-destra nelle elezioni politiche del 2006 e % dei SI al Referendum del 2006 per grandi ripartizioni territoriali.

Ripart. terr. %CD06 %CS06 %SI06 %NO06 %SI06-%CD06
NORD 54, 30 45, 70 50, 24 49, 67 -4, 06
CENTRO 43, 51 56, 49 32, 67 67, 33 -10, 84
SUD 50, 42 49, 58 26,69 73, 31 -22, 89
ITALIA 49, 74 49, 81 38, 35 61, 65 -11, 39

L´ultima colonna della Tab. 11 mostra l´impressionante escalation delle perdite di voti della coalizione di CD muovendo da Nord a Sud. Queste si riflettono in considerevoli perdite (11, 39 %) a livello nazionale.

7. Spiegazioni statistiche. L´analisi svolta nelle sezioni precedenti è di tipo descrittivo e interpretativo. Assolutamente insufficiente per proporre delle vere spiegazioni. Queste richiedono l´impiego di modelli statistici, mediante i quali effettuare dei test statistici. Ad esempio che i risultati del referendum del 2006 si possano spiegare con l´avversione del Centro e ancor di più del Sud alla devolution è un´ipotesi, a mio avviso molto plausibile, ma che deve trovare una sua conferma con un test statistico, che al momento manca, ed è rinviata a un lavoro successivo. (Il modello potrebbe ad esempio mettere in relazione positiva la percentuale del NO con i trasferimenti dello Stato alla regione, o con un indice dell´efficienza amministrativa della regione: l´ipotesi essendo che maggiori sono i trasferimenti ricevuti, e minore l´efficienza amministrativa regionale, maggiore è l´opposizione dei cittadini di quella regione alla devolution.)

La Tabella 8 è il preludio di alcuni interessanti tentativi di spiegazione statistica dell´esisto del referendum del 2016. Afferma Pietro David in Referendum: il NO cambia da Nord a Sud, apparso sulla rivista economica online Lavoce il 20/12/16 :

Il voto referendario, anche per la semplicità di espressione, è strettamente legato alle condizioni materiali degli elettori e alla percezione delle loro prospettive future. Se infatti incrociamo i risultati del referendum costituzionale con gli ultimi indicatori di povertà o esclusione sociale pubblicati dall’Istat nel Rapporto sulle condizioni di vita e reddito, emerge uno stretto legame tra l’ “indicatore rischio di povertà o esclusione sociale” e il no al referendum.

Non è chiaro se la prima frase di questo breve passo intenda enunciare una legge generale, o, come sarebbe più appropriato, descrivere il risultato della sua ricerca. Dalla sua semplice regressione lineare, l´indice di rischio di povertà o esclusione sociale sembra spiegare abbastanza bene la percentuale di NO espressi a livello regionale: il coefficiente di correlazione è di 0, 5039 e quello di determinazione (R2) di 0, 6597. David allestisce anche un regressione tra i SI a livello delle varie province e il tasso di occupazione registrato nel 2015 in esse. Ottiene un coefficiente di correlazione di 0, 5984 e un coefficiente di determinazione R2 = 0, 6252, forse sufficienti per asserire l´esistenza di una “forte correlazione tra il voto espresso e il tasso di occupazione.” Egli osserva inoltre che “i risultati delle ripartizioni territoriali sono molto diversi tra loro. Se nelle regioni del Nord la differenza tra il SI e il NO è di 14, 5 punti percentuali, e nel Centro si riduce a 8, 6 punti, è nel Mezzogiorno che il divario assume proporzioni molto elevate: oltre 37 punti percentuali differenza,” circostanze che possono essere verificate ispezionando la nostra Tabella 2. Ma la conseguenza che David trae da questi confronti

Sembrerebbe dunque che nel risultato del 4 dicembre abbia pesato molto di più il divario Nord-Sud in termini di reddito, occupazione e qualità della vita e molto meno il merito del quesito referendario,

non sembra esatta. Non c´è stato alcun bisogno del contributo del Sud per respingere la proposta referendaria, respinta separatamente in tutte e tre le grandi ripartizioni territoriali e in tutte le regioni del paese, tranne 2 al Nord (Lombardia e TrentinoAA) e 2 al Centro (EmiliaR e Toscana): vedi Tab. 1.

Il lavoro di Alfredo Del Monte Il peso della disoccupazione sul voto, LaVoce, 31/01/17, evidenzia che accanto al tasso di disoccupazione un elemento altrettanto se non più importante nella spiegazione del risultato è stato la fedeltà degli elettori alle indicazione date dai propri partiti. Il lavoro di Marta Regalia e Filippo Tronconi (Il No in cerca di spiegazioni: fattori politici e sociali nella distribuzione territoriale del voto, in La Prova del No, a cura di Andrea Pritoni, Marco Valbruzzi e Ronaldo Vignati, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017, pp. 93-111) mostra che mentre nel Nord la spiegazione politica (fedeltà dell’elettore) è forte e significativa mentre non lo è quella basata sul tasso di disoccupazione, nel Sud (nell’analisi di regressione vengono considerate molto opportunamente come appartenenti al Sud anche le province del Lazio) la spiegazione politica non è significativa mentre è significativa la relazione fra tasso di disoccupazione e voto per il NO. Questi tre lavori evidenziano dunque l’esistenza di una sostanziale differenza fra Nord e Sud nella spiegazione del risultato elettorale, e dunque, indirettamente, lo scarso peso del quesito referendario sui risultati.

Ho qualche perplessità su questa distinzione netta tra “fattori sociali” e “politici”. Presumibilmente la gente tiene conto delle proprie condizioni economiche e sociali nella scelta dei partiti per cui votare. Perciò i “fattori politici” dovrebbero di per se´ comprendere quelli “sociali”. Parrebbe seguirne che gli unici “fattori sociali” non catturati in quelli “politici” siano le novità degli anni tra il 2013 e il 2016, compresa l´operato del governo Renzi e la campagna elettorale da Renzi condotta.

8. Conclusioni: condizioni di uso del referendum costituzione

Le analisi descrittive svolte nelle sezz. 2-6 e statistiche riferite nella sez. 7 portano a concludere, in accordo con le opinioni più o meno impressionistiche di numerosi osservatori e commentatori, che i giudizi espressi dagli italiani nel 2016 non vertessero sul quesito ufficialmente proposto? Della proposta di riforma costituzionale Boschi-Renzi si è notato il tasso di tecnicismo. Quanti potevano aver capito, non solo del pubblico ma anche dei media, che le due Camere possono essere diverse sia per i poteri sia per la natura o composizione? Chi è riuscito a stabilire se il bicameralismo paritario sia o no una causa di rallentamento dell´attività legislativa e di governo (dato che la stragrande maggioranza degli atti di governo si esplica in atti legislativi)? Come potevano, allora, i cittadini, anche i più volenterosi, farsene un giudizio? Anche della proposta di riforma Berlusconi-Bossi, sottoposta a referendum nel 2006, si poteva rilevare la complessità. In effetti investiva ancora più aspetti del nostro sistema politico della Boschi-Renzi. (Toccava 56 articoli della Costituzione, contro i 47 della Boschi-Renzi.) Ma almeno se ne potevano intravvedere le due direttrici principali: l´introduzione del premierato, con cui veniva rafforzato il ruolo del capo del governo rispetto al Parlamento e cancellato quello del Presidente della Repubblica, che perdeva i suoi poteri rispetto sia al Parlamento sia al governo: la principale richiesta di Berlusconi; e la famosa “devolution”, attribuzione di competenze legislative alle regioni, soprattutto nella sanità e nell’istruzione, sottraendole al Parlamento nazionale: la principale richiesta di Bossi. La proposta Boschi-Renzi era di ben altra sottigliezza nel suo intento di riattivare il circuito Parlamento-Governo, attualmente in permanenza ostruito, e di formulare un nuovo regionalismo. Il carattere parlamentare della nostra Repubblica, e i poteri del Presidente della Repubblica, restavano intatti. Per poterla giudicare, bisognava capirla, e capirla, non era punto facile. Cosi si spiega la richiesta che venne inizialmente avanzata dai Radicali, e in extremis ripresa con una serie di interessanti ma sfortunate azioni giudiziarie dall´ex giudice e Presidente della C. C. Valerio Onida, di distinguerne e sottoporne distintamente al giudizio diversi aspetti. Questo avrebbe forse anche facilitato la comprensione della proposta. Anche se i suoi sostenitori obiettarono che dato il suo carattere sistemico, la sua modularizzazione, o “spacchettamento”, era impossibile: la riforma avrebbe dovuto essere approvata o respinta in blocco, perché di un blocco, non si un assemblaggio di parti facilmente isolabili le une dalle altre, si trattava. Si sarebbe potuto obiettare che componenti facilmente distinguibili c´erano. Ad esempio, le modalità di elezione del nuovo Senato si potevano facilmente respingere, senza che questo compromesse il resto della costruzione, in parte molto apprezzabile. Durante l´Estate del 2016 Massimo d´Alema se ne uscì con un esempio di proposta sorprendentemente semplice, che da un lato soddisfaceva a molte delle esigenze di funzionalità del circuito governo-parlamento della Boschi-Renzi, dall´altro sarebbe stato, a suo dire, facilmente e rapidamente approvabile dal Parlamento: 1) limitazione del potere di concedere la fiducia alla sola Camera de deputati; 2) riduzione proporzionale nel numero di deputati e senatori; 3) istituzione di una commissione mista di conciliazione per contenere a 2 i passaggi di una proposta di legge tra le due camere. Da notare a) l´alto grado di comprensibilità della proposta, e b) la sua piena modularità. Anche le due parti principali della Berlusconi-Bossi, richiamate sopra, erano perfettamente scomponibili.

Però in generale per un referendum costituzionale un problema di comprensibilità esiste, soprattutto se pensiamo al grado di istruzione e informazione medio della nostra cittadinanza. Vi sono due soluzioni a questo problema. La prima, la soluzione diremo di default,   è che a chi non ha voglia o non ha le risorse di tempo e di istruzione di informarsi e farsi un giudizio suo resta l´opzione di non andare a votare. Questa può essere una delle ragioni per le quali l´art. 138 non prescrive un quorum per la validità dei referendum costituzionali. La seconda è che gli elettori possono decidere lasciarsi guidare dalle indicazioni dei loro partiti preferiti. L´obiezione che si può muovere a questa alternativa è che i partiti hanno la loro principale proiezione in Parlamento, e con il referendum costituzionale si vuole invece rimettersi alla volontà del popolo, o almeno, dei cittadini, dato che il Parlamento non è riuscito ad approvare da se la riforma . Implicito nell´idea del referendum costituzionale è che i singoli cittadini, sfruttando le loro reti associative, ma senza più far capo ai partiti, siano in grado di farsi un giudizio sulle questioni ad essi sottoposte. Tuttavia seguire le indicazioni dei partiti è un modo corretto e sensato di rispondere a un´occasione referendaria. E come se un giocatore restituisse la palla a chi gliel´ha passata. Questo sembra pacifico, ma ha una conseguenza forse inattesa: nella misura in cui si accerta statisticamente che in una provincia, o regione, o altra ripartizione territoriale il voto sia stato determinato dalla variabile “fedeltà di partito”, non si può sostenere che gli elettori non abbiano votato sul merito del referendum. Nei nostri referendum del 2006 e del 2016 vi sono stati, come abbiamo visto, rilevanti scostamenti dalle indicazioni dei partiti, soprattutto ma non esclusivamente al Sud. Questo naturalmente non esclude che un esito si possa interpretare come espressione di giudizi pertinenti su aspetti delle riforme proposte. Come abbiamo visto,questo è probabilmente il caso del referendum del 2006; ma non del 2016. Allora l´esito del 2016 è una manifestazione di “populismo”? Forse no. Nella estenuante campagna elettorale condotta da Renzi l´elettorato è stato invitato a esprimere un giudizio sul governo e sulla sua leadership. Ne sono mancati accenti populistici nella stessa propaganda e azione di governo di Renzi (l´elezione di secondo grado dei senatori dai consigli regionali per evitare di pagargli uno stipendio, ecc.)   Ammettiamo tuttavia che il comportamento degli elettori del 2016 abbia debordato rispetto ai limiti del compito al quale erano stati chiamati. Allora vi sarebbe un aspetto per il quale il referendum costituzionale del 4 Dicembre, nonostante la grande partecipazione, si dovrebbe considerare un fallimento. Non dal punto di vista politico, ma da quello istituzionale. Infatti la gente, che era chiamata a partecipare a un´attività deliberativa, avrebbe risposto con un´attività espressiva. Sicuramente la proposta di riforma è stata bocciata, ma l´oggetto dei “NO” e dei “SI” non sarebbe stato il quesito loro sottoposto. Circa un mese prima del nostro referendum, il noto commentatore economico del Financial Times, Martin Wolf, intervistato da Federico Fubini sul Corriere della Sera dell’8 Novembre 2016, rispose cosi a una domanda sui possibili parallelismi tra il referendum britannico su Brexit e il referendum italiano:

Il parallelismo più chiaro è che i referendum sono enormi scommesse. I politici ormai si sono abituati a usare i referendum come modi di risolvere questioni molto difficili, ma quando mettono un quesito di fronte agli elettori, non possono decidere come le persone lo vedono. Gli elettori possono votare per molte ragioni. Alcune magari hanno a che fare con la domanda sulla scheda, ma anche in quel caso potrebbero essere malinformati; molte delle risposte invece potrebbero essere a domande diverse: se si è felici, se si è soddisfatti del governo, se Matteo Renzi o David Cameron ci piace e abbiamo fiducia in loro. Diventa in qualche modo un referendum sulla politica, sui leader, sullo stato dell’economia. Ciò che accade diventa molto incerto, imprevedibile. E il risultato non sarà necessariamente una risposta al quesito in senso proprio, ma una risposta nel senso che comunque diventerà un evento politico che potrebbe avere conseguenze politico molto, molto grandi. Brexit ha enormi conseguenze politiche, qualunque sia stata la motivazione degli elettori. E in modo simile un No o un Sì in Italia avrà enormi conseguenze politiche. E potenzialmente può destabilizzare il sistema politico e l’economia.

Il guaio è che Matteo Renzi ci mise del suo non per scongiurare, ma per incoraggiare e stimolare queste ipotesi, descritte con singolare preveggenza da Martin Wolf, e si lanciò per lunghi mesi in una campagna a favore del “SI” estremamente personalizzata e invadente. Ai cittadini eventualmente perplessi venne offerta una facile via d´uscita: il “SI” o il “NO” sarebbero stati a Renzi. La temuta, deprecata trasformazione del referendum costituzionale in un plebiscito su Renzi avvenne, e il popolo respinse Renzi. Insomma, irresponsabilità costituzionale della leadership piuttosto che cedimento degli elettori italiani alle recenti ondate di “populismo”.

Vi è però qui un´altra circostanza paradossale. Chi, se non il governo, può farsi carico di una riforma delle istituzioni politiche? Tutte e tre le proposte di riforma costituzionale che diedero luogo a dei referendum, del 2001, 2006, 2016 sono state di iniziativa governativa. Eppure, il governo non deve troppo identificarcisi, altrimenti la proposta di riforma sarà avvertita (come di fatto è) come un´iniziativa sua e un eventuale voto referendario avrà come oggetto l´intero operato del governo: si trasformerà cioe’, se non in un plebiscito sul suo capo, in un´elezione politica anticipata. Da queste considerazioni sembrerebbe seguire la desiderabilità di regolamentare il referendum costituzionale, sotto tre aspetti: 1) la comprensibilità, da raggiungere mediante la strutturazione modulare delle proposte; 2) l´astensione del governo dalla campagna referendaria; 3) la limitazione del periodo da dedicare ad essa.

* Questo articolo sarà pubblicato negli Atti dell´Accademia Olimpica di Vicenza

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