La stupidità conduce alla catastrofe (come le presidenziali americane hanno dimostrato)

26 Feb 2017

Fabrizio Tonello

Qualche anno fa, avevo scritto per il giornale dell’università di Padova un articolo sulle competenze di base degli studenti, dove raccontavo di un esame sulla politica estera americana in un corso di laurea magistrale. La storia era questa:
“Mi parli di come iniziò la guerra fredda”.
“Beh, ci fu il piano Marshall…”
Interrompo, pazientemente: “Quello arriva dopo: come si passò dall’alleanza antinazista alla rottura fra USA e URSS?”. Risposta: “Gli Stati Uniti si opponevano all’espansionismo sovietico”. Un po’ ideologico, ma promettente.
E in quali paesi si temeva che l’Unione Sovietica installasse regimi a lei favorevoli?”
Improvvisamente, vedo lo studente impallidire sotto la barba, comincia a fissarsi le scarpe con insistenza, la temperatura corporea scende. Dopo un buon minuto di riflessione, riesce a sussurrare:
“L’Ucraina”, mi fa lui con il tono di chi è sul punto di svenire.
“L’Ucraina faceva parte dell’Unione Sovietica, non dei paesi satelliti”, rispondo.
“I paesi baltici?”
“Anche quelli”.
Sorrido con l’aria incoraggiante: “Senta, prendiamo una scorciatoia. Se lei va in macchina al valico di Tarvisio, in che paese si trova?” (mi vergogno di me stesso, trasformare un esame in gita fuori porta per salvare studenti ansiosi, ma non saprei che altro fare).
“Tarvisio?”
“Sì, Tarvisio”.
“Ecco, Tarvisio, in questo momento ho un vuoto, non saprei”.
Lo guardo meglio: è una persona normale, avrà 27 o 28 anni, è iscritto a una laurea magistrale e vuole uscire dall’università in marzo, con un titolo di studio che gli permetterà di accedere a ruoli dirigenziali nella pubblica amministrazione, candidarsi per lavorare in organismi internazionali, magari pensa di fare il volontario per Emergency. Però non sa dov’è Tarvisio.
Mi chiedo a cosa serva l’università, perché siamo qui? Cinque anni di elementari, tre di medie, cinque di superiori, tre di laurea di primo livello, due di laurea magistrale: totale 18 anni di studio in cui qualcuno, da qualche parte, in qualche momento, avrebbe dovuto dire: “Bene, ragazzi, allora l’Italia con quali paesi confina?”. Forse quel qualcuno c’è stato, una maestra diligente o un professore delle medie che riteneva importante la geografia, ma il mio studente non ascoltava, non leggeva, non guardava la carta geografica.

Naturalmente, non volevo associarmi al coro di lamentele in stile Paola Mastrocola sul fatto che “non c’è più la scuola di una volta”, versione moderna del “Signora mia, non ci sono più le mezze stagioni!”. È vero che molti studenti arrivano all’università senza sapere cosa significano parole presenti ogni giorno nei titoli dei giornali come “preambolo”, “diatriba”, “recessione”, “legislazione” o “intercettazione”. Purtroppo, la ricetta di tornare alla scuola della selezione, ai “licei di un tempo” non è la soluzione: il liceo classico rimpianto dall’autrice torinese era un’istituzione che accettava solo i figli dei privilegiati, chi arrivava con alle spalle famiglie colte e benestanti.

La sua qualità era figlia dell’esclusione ed è semplicemente irriproducibile in una scuola di massa, tanto più in una scuola di massa sottofinanziata da decenni, demotivata e priva di insegnanti creativi. C’è sempre un aspetto “eroico” nella relazione educativa, una ricerca di senso che le burocrazie del MIUR non possono soddisfare: solo i docenti carismatici possono scuotere gli allievi, trascinarli e far loro amare il sapere.
Ciò detto, il problema rimane: quest’anno lo stesso corso si tiene in inglese e, mediamente, si vede che gli iscritti studiano il libro di testo. Peccato che, nei compiti scritti, si scopra che la loro conoscenza della lingua inglese è sufficiente solo per dire “Two Guinness, please” e poi allungare un biglietto da 20 euro al barista irlandese perché non hanno capito il costo esatto della consumazione. Cosa facciamo per evitare di mandare per il mondo dei laureati destinati a una vita di ignoranza?


Per la formazione ciò che è decisivo non è il contenuto dell’istruzione ma il modo in cui il messaggio è veicolato e i contesti in cui ciò avviene. Lo spirito antintellettuale diffuso nella nostra società produce studenti svogliati o scettici e genitori interessati soltanto al diploma o alla laurea, privi di qualsiasi investimento emotivo nei confronti della scuola o dell’università. Secondo Gregory Bateson, è nel processo sociale che i giovani acquisiscono (oppure no) “la capacità di cercare contesti e sequenze di un tipo piuttosto che di un altro, un’abitudine a segmentare il flusso degli eventi per evidenziarvi ripetizioni di un certo tipo di sequenza significativa”.

La nostra riflessione deve quindi partire dalle condizioni materiali della formazione scolastica. Dobbiamo chiederci: qual è l’effetto sulla scuola del bombardamento di storie di successi legati ad apparizioni in televisione? Quale sensazione induce l’entrare in scuole vecchie, con i muri scrostati, i banchi troppo piccoli, il riscaldamento che spesso non funziona o le stanze in cui piove dentro?

Il confronto tra le paillettes e i lustrini della tv e il grigiore di aule deprimenti non può che rafforzare la sensazione di estraneità che già i ragazzi provano entrando in un mondo di sistemi simbolici che richiedono uno sforzo prolungato per essere padroneggiati. Un semplice telefonino dà accesso a rapporti con gli amici, giochi, immagini che si materializzano istantaneamente senza richiedere l’apprendimento di alcun linguaggio particolare: dobbiamo stupirci che esso appaia come il rappresentante di un mondo ben più attraente di quello dei verbi irregolari e delle equazioni? Neppure la tortura può costringere uno studente a fare attenzione, se non vuole. Forse dovremmo tornare a riflettere sul come si motivano gli studenti a imparare, più che sulle etichette dei corsi.

Soprattutto, chi vuol essere un docente e non una babysitter annoiata, che sopporta le 18 ore in classe (più quelle di riunione) in cambio di un magro stipendio, deve prendere atto che occorre ribellarsi. Sì, ribellarsi all’antiintellettualismo, alla mediocrità, diciamo pure alla stupidità, di politici come Renzi e la Boschi che polemizzavano con i costituzionalisti che si opponevano alla loro controriforma, definiti ironicamente “professoroni”. Il popolo italiano ha seppellito il vergognoso testo costituzionale sotto una valanga di No ma loro sono ancora lì, esempio di ex giovani cresciuti a pane e Mike Bongiorno: ignoranti ma veloci, furbetti e piacioni.

Qualche anno fa Giovanni Gozzini analizzava in questo modo la trasmissione Grande Fratello, che a suo avviso completava “il lungo processo di divizzazione del cittadino medio, intrapreso ormai mezzo secolo prima da Lascia o raddoppia? Uomini e donne, senz’arte né parte, ma scelti da un’attenta regia, danno vita a un mix di psicodramma, recita a soggetto, competizione spregiudicata con lo scopo di espellere gli altri dal gioco. Questi personaggio normali immessi in situazione anormali esprimono una messa in scena potenzialmente più attrattiva della classica fiction perché più capace di essere “bidirezionale”, cioè di attivare maggiormente i meccanismi di (…) immedesimazione e partecipazione, da parte degli spettatori”.

Come saprete, il conduttore di un altro reality show, The Apprentice, è stato appena eletto presidente degli Stati Uniti. Tra stupidità e catastrofe c’è un rapporto sempre più stretto.

 

Gilda Professione Docente Numero 2 – Marzo 2017


17 Febbraio 2017

(*) L’autore, socio di Leg, è docente di Scienza politica presso l’università di Padova, dove insegna, tra l’altro, un corso sulla politica estera americana dalle origini ad oggi.

 

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