Classe dirigente/Libertà e Giustizia, intellettuali in campo per salvare la politica

06 Feb 2017

La campagna referendaria come momento di formazione di una nuova classe dirigente: un paio di mesi dopo una battaglia sulla Costituzione caratterizzata da toni altissimi, ma anche da dibattiti a colpi di articoli della Carta, a Libertà e Giustizia, la leggono anche così. È un momento delicato per questa associazione, nata nel 2002, in pieno berlusconismo, con l’ obiettivo di diventare l’ anello di congiunzione tra società, politica e istituzioni, di incanalare la delusione nei confronti dei partiti. Ora nel Comitato del No si discute se passare all’ agire politico più tradizionale, magari presentando liste alle elezioni.

Libertà e Giustizia fa scuole di politica da 10 anni ma, come racconta la presidente Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia University di New York, in questi ultimi mesi “si è riscoperta una figura di intellettuale collettivo democratico a tutto tondo”. Prima c’ era “un intellettuale organico ai partiti, che stava un gradino sopra rispetto all’ iscritto e indicava la via, secondo una concezione gerarchica del suo ruolo.
Poi, c’ è stata la fase dell’ intellettuale da talk show, con un forte accento personalistico e teatrale.

La campagna referendaria ha fatto emergere un intellettuale che è più in accordo con una società democratica, come la nostra, nella quale non c’ è un futuro altro da edificare, non c’ è dottrina o teleologia”. Per questo la Urbinati parla della necessità dell’ embodiement (“incarnazione”, “realizzazione”) del pensiero nell’ azione, che è poi il “carattere della cittadinanza democratica”. Il tema “formazione di una classe dirigente” Libertà e Giustizia se lo pone da più di un decennio.

A raccontarlo è il filosofo Salvatore Veca, oggi nel Comitato dei Garanti di Libertà e Giustizia: “Nel 2006, quando ero Rettore della Scuola universitaria di Pavia, feci partire la prima esperienza della scuola nazionale di LeG del Circolo di Pavia. All’ epoca si faceva sempre in quella città, nel collegio Ghisleri. Si percepiva allora (e si percepisce ancora) un deficit di formazione, di cultura e di sapere. E per cultura intendo mente aperta, capacità critica, discernimento, conoscenza delle questioni. La selezione del personale politico mostrava severi deficit”.

Veca fa un passo indietro: “Durante i lunghi anni del dopoguerra far coincidere la partecipazione alla responsabilità politica con la formazione era un must, non un optional”. Ma poi il nesso tra formazione, competenza, cultura e agire politico “si è scassato”. E così, “chi viveva l’ associazionismo sentiva fortemente il bisogno di riprendere a ricostruire momenti di riflessione che non fossero talk show”. A Pavia, c’ erano tre moduli di tre “robusti” fine settimana: nel primo si affrontavano le questioni fondamentali della democrazia (principi e valori); nel secondo, le politiche pubbliche (lavoro, distribuzione del reddito); nel terzo, i diversi livelli in cui si opera (dal Comune all’ Unione europea). In quelle esperienze si cercava di costruire “un civismo consapevole”. La formazione della classe dirigente è un’ operazione contigua, ma diversa.

“Un tempo erano importanti le Frattocchie, la scuola del Pci. I francesi, per esempio, hanno il sistema delle Grandi école, mentre in Italia, un cursus honorum simile non c’ è. Per un politico seguire una scuola è una pre-condizione, un elemento di selezione. Ma quando la politica diventa solo massimizzazione del proprio interesse personale servono altri strumenti: deferenza, strategia, scambio. Ma si tratta di una carriera completamente diversa”. Una ricetta per diventare leader politico?

“Servono scuola e piedi, come dicono gli scandinavi”.
Oggi le scuole durano 2 o 3 giorni (con un costo di 200 euro): la mattina e il pomeriggio ci sono interventi e discussioni, poi una cena tutti insieme, docenti e professori, la serata si chiude con una discussione informale. Si fanno in tutta Italia: a Pavia, a Reggio Calabria, a Messina, a Matera, a Poggibonsi, a Genova, a Modena, Perugia, Messina, Ravenna, Bologna. Tra i relatori abituali, anche Gustavo Zagrebelsky e Sandra Bonsanti.

Come spiega Francesco Pallante, che insegna diritto Costituzionale all’ Università di Torino e delle scuole è il coordinatore, “poter avvicinare degli intellettuali prestigiosi per gli iscritti è sempre interessante”. A Pavia l’ anno scorso c’ è stato un corso sulla crisi della politica, con Veca, Urbinati, Alfio Mastropaolo, professore a Torino ed esperto di anti-politica, oltre a Carlo Galli, filosofo e oggi deputato (per tenere insieme riflessione e esperienza). Il primo di un ciclo: in programma una scuola sulla crisi dell’ economia, poi di crisi del diritto. L’ idea è di fare anche corsi di una sola giornata: a Bologna ce ne sarà uno sul lavoro. Lo storico Paul Ginsborg ha proposto un progetto sulla passione politica, a Firenze. L’ avvocato Elisabetta Rubini sull’ informazione.

Spiega Pallante: “I professori della generazione di Zagrebelsky citavano Platone in greco. Oggi è arduo trovare qualcuno che sappia farlo. Una volta non era difficile trovare persone di grande cultura tra i politici, basta leggere i dibattiti dell’ Assemblea costituente”, Rispetto a oggi, lo scarto è enorme: “Durante la campagna referendaria ho incontrato esponenti politici di livello culturale così basso che diventava difficile persino litigare. Certo, una volta l’ università era solo per le élite.

Non era un sistema democratico”. E poi, indica un altro problema: un tempo la politica si rivolgeva agli intellettuali per avere idee, proposte, “oggi sono gli intellettuali a mettersi a servizio per avere posti. La politica ha perso la capacità di conoscere il mondo prima di prendere decisioni e gli intellettuali hanno perso autorevolezza”.

Per questo c’è chi, come Nadia Urbinati, vede un ruolo più attivo sia dei cittadini, che degli intellettuali: “Sono convinta che ora sia utile entrare in politica. Nei partiti è in corso una trasformazione oligarchica: si occupano ormai soltanto di formazione delle liste e strategie elettorali. Per questo, c’ è bisogno di associarsi e avere un peso”.
Un peso su tutte le questioni centrali: “Sulla legge elettorale, sull’ applicazione della Costituzione fondata sul lavoro e non sui voucher, per esempio”. I girotondi negli anni del berlusconismo furono tra le prime forme di messa in discussione del ruolo dei partiti. I comitati del No (molti sono ancora in piedi) “esprimono già un bisogno di progetto”, osserva Nadia Urbinati che però è consapevole dei problemi: “Oscar Wilde diceva che il socialismo non era desiderabile perché non avrebbe concesso alcuna sera libera da riunioni”.

Fare politica impone un lavoro psicologico non facile: “Bisogna essere in grado di separare tra giudizi politici e giudizi morali. Non tutti ne sono capaci. La politica ha una sua logica, di cui fanno parte il compromesso, la trattativa, l’ abbassamento delle speranze, cose più facili da criticare che da attuare e da digerire”.

Il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2017

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