L’improbabile regno atlantico

29 Gen 2017

Fabrizio Tonello

Il primo ministro inglese Theresa May, che non ha avuto una buona settimana, si è incontrata ieri con Donald Trump con un unico obiettivo: resuscitare il “legame speciale” che negli ultimi 100 anni ha unito i destini di Gran Bretagna e Stati Uniti. Era esattamente un secolo fa, infatti, quando l’amministrazione Wilson preparava l’ingresso nella Prima guerra mondiale con il pretesto di “rendere il mondo sicuro per la democrazia”: la dichiarazione di guerra sarebbe arrivata il 6 aprile 1917. Le truppe del generale Pershing salvarono gli alleati ma fallirono nell’obiettivo di creare un ordine internazionale stabile e pacifico: al contrario il trattato di Versailles piantò i semi della Seconda guerra mondiale.

Anche in quel caso gli Stati Uniti intervennero e, di nuovo, tardivamente: il conflitto scoppiò nel 1939 ma, nonostante gli stretti legami personali con Winston Churchill, Franklin Roosevelt vi entrò solo a fine 1941, costretto dall’attacco giapponese contro Pearl Harbour. La vittoria del 1945 consacrò definitivamente il ruolo dell’America come superpotenza, in sostituzione di una Gran Bretagna vincitrice ma stremata dalle perdite umane e materiali).

Approfittando dell’uscita dall’Unione Europea, Theresa May vorrebbe ricreare con Donald Trump quello che in tempi più recenti era il legame tra Ronald Reagan e Margaret Thatcher ma non basta un vertice e una photo opportunity per tornare ai dorati anni Ottanta e ai successi di allora. Prima di tutto Reagan riconosceva la Thatcher come un politico che era arrivata al potere prima di lui, vincendo le elezioni nel 1979, e come mentore intellettuale: benché Reagan condividesse con lei le idee neoconservatrici sul libero scambio e sulla necessità di confrontarsi a muso duro con l’Unione Sovietica, la Thatcher era un politico più intelligente e più preparato (era stata deputato fin dal 1959, quando ancora Reagan faceva pubblicità per i frigoriferi General Electric in televisione).

Fu questo rapporto di ammirazione verso la Thatcher che indusse Reagan ad accettare Gorbaciov come partner privilegiato nei negoziati sul disarmo nucleare culminati nella firma del trattato per l’eliminazione dei missili a medio raggio, nel 1987, e nell’avvio delle trattative per la riduzione di tutte le altre armi nucleari prevista dal trattato Start I.

Questa forte solidarietà ideologica, unita a una profonda fiducia personale che raramente si trova fra leader di paesi diversi, sembrano assenti nel rapporto fra Trump e May, almeno per ora. Theresa May è un politico tradizionale, un puro prodotto dell’establishment inglese, laureata ad Oxford, passata alla Banca d’Inghilterra, deputato fin dal 1997. Trump è un miliardario narcisista e bugiardo, che non ha mai ricoperto una carica politica, e abile in una sola cosa: dominare i telegiornali serali con dichiarazione provocatorie.

I tratti caratteriali potrebbero anche diventare secondari se ci fosse un forte accordo politico ma questo non sembra essere il caso, in particolare per quanto riguarda i rapporti con la Russia. La May è non solo una sostenitrice della Nato ma certamente ricorda quando, nel 2006, i servizi segreti del Cremlino assassinarono a Londra il dissidente Alexander Litvinenko, in un’operazione che l’inchiesta attribuì a un ordine di Vladimir Putin. Negli ultimi anni, le relazioni tra Londra e Mosca sono state pessime, ben lontane da quelle amichevoli che Trump vuole ristabilire con la Russia.

Anche per quanto riguarda la politica economica è difficile che i due personaggi si intendano: Trump ha vinto la sua campagna elettorale invocando il protezionismo, e da allora ha continuato a minacciare di imporre dazi doganali contro interi paesi (il Messico) o singole aziende (cosa che non ha il potere di fare, ma l’importante è il messaggio ai suoi sstenitori). La May ha bisogno di avere un alleato nei difficili negoziati con l’Unione Europea ma non si vede quale interesse potrebbe avere Trump a darle una mano.

Soprattutto, Trump sembra determinato a seminare il caos nel sistema economico mondiale: dopo il ritiro dal Trattato di libero scambio del Pacifico, le sue iniziative contro il Messico minacciano seriamente di sfasciare anche il Nafta, il trattato di libero scambio con, appunto, il Messico e il Canada. Se a questo si aggiunge l’incertezza nei raporti con la Cina e la possibilità di guerre commerciali bilaterali, si capisce che l’ottimismo attuale dei mercati finanziari americani è destinato a durare poco. La Borsa di Wall Street, ottimista sulla possibilità di avere un “normale” presidente repubblicano che portasse in dote meno tasse e meno regole per il settore finanzario, dopo le elezioni è salita ma cambierà presto opinione. Il crack potrebbe arrivare tra qualche settimana o qualche mese, ma arriverà e non sarà Theresa May a convincere il bullo della Casa bianca che sarebbe più prudente riflettere prima di twittare.

(*) L’autore è docente di Scienza Politica all’Università di Padova
il manifesto, 28 gennaio 2017

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