Il superamento delle grandi riforme e il rischi della sovranità popolare

23 Gen 2017

Due sono i temi che intendo trattare. Il superamento delle grandi riforme, dopo i cinque fallimenti che hanno caratterizzato la politica italiana dal tentativo della commissione Bozzi (1985) alla bocciatura della riforma Renzi-Boschi. Il rischio che corre la sovranità popolare con il duplice tentativo del governo Renzi (uno dei quali riuscito) di privare i cittadini del diritto di eleggere direttamente i propri rappresentanti negli organi collettivi di rilievo costituzionale.

1. Il superamento delle grandi riforme. Fino ai primi anni ’80 è stato pacifico che le revisioni costituzionali dovessero avere un contenuto omogeneo e puntuale. Si riteneva cioè che, secondo l’art. 138 della Costituzione, fossero modificabili soltanto singoli articoli della Costituzione o tutt’al più una pluralità di articoli tra loro connessi, in modo tale che, nell’eventuale voto confermativo, gli elettori potessero esprimersi su una sola questione.

Le cose cominciarono a cambiare con l’istituzione della  c.d. Commissione Bozzi, che nel 1985 propose una vasta modifica anche della Parte prima della Costituzione.

 Il primo vero tentativo di una mega-riforma lo si ebbe però solo con la Commissione De Mita-Jotti (1993), cui fu affidato il compito di elaborare un “progetto organico” di riforma relativo a quasi tutta la Parte seconda della Costituzione, che non fu nemmeno posto all’esame delle Camere, in conseguenza dell’anticipata conclusione della XI legislatura.

  Il secondo tentativo lo si ebbe con la Commissione D’Alema che si impegnò a lungo, nella XIII legislatura, per elaborare una riforma in senso federale dello Stato con il Presidente della Repubblica eletto dal popolo, ma la riforma si arenò a seguito del venir meno dell’appoggio di Forza Italia.

 Il terzo tentativo fu quello della mega-riforma Berlusconi – bocciata dal popolo (2006) – che pretendeva anch’essa di instaurare una forma di Stato federale, con un premierato assoluto e una diversa composizione (federale) della Corte costituzionale.

Il quarto tentativo è stata la mega-riforma Letta (2013), che prevedeva una legge costituzionale “madre”, cui sarebbero dovute seguire svariate leggi costituzionali “figlie” afferenti alle materie della forma di Stato, della forma di governo e del bicameralismo: modifica che si arenò non solo per l’ostracismo del M5S ma soprattutto perché Forza Italia fece mancare l’appoggio alla maggioranza poco prima del voto definitivo.

Il quinto e ultimo tentativo è quello recente della discutibilissima mega-riforma Boschi, sonoramente bocciata dagli elettori, che pretendeva di modificare ben 45 articoli della Costituzione con tutta una serie di gravi violazioni della Costituzione che non sto qui a ricordare.

Nessuna delle mega-riforme finora tentate ha quindi mai avuto  successo con grande inutile dispendio di tempo.

Per contro numerose sono le leggi di revisione costituzionale aventi un contenuto omogeneo e puntuale. Ne ricordo alcune: l’estradizione dei rei del delitto di genocidio; la previsione della circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere; la pari opportunità tra donne e uomini; la pari durata delle due Camere; l’eliminazione dell’autorizzazione a procedere per i parlamentari; l’attribuzione alle Camere del potere, a maggioranza dei due terzi, di disporre l’amnistia e l’indulto; la diversa disciplina costituzionale del bilancio dello Stato: l’eventuale possibilità del Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere anche negli ultimi sei mesi; la sottoposizione del Presidente del Consiglio e dei Ministri alla giurisdizione ordinaria per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni; la sostituzione del titolo V della Costituzione relativo a Regioni, Province e Comuni (una legge dal contenuto omogeneo, ancorché composta da una ventina di articoli).

Ciò dovrebbe condurre ad una conclusione ovvia e ragionevole.

Se le forze politiche intendono davvero effettuare modifiche alla Carta costituzionale (e non perdere ancora anni di tempo nell’illusione delle grandi riforme), l’unica via è quella di tornare alla Costituzione, limitandosi perciò a proporre soltanto le revisioni puntuali ed omogenee. Le quali, appunto perché puntuali ed omogenee, non coercirebbero la volontà dell’elettore, come invece accade di fronte a riforme costituite da decine e decine di articoli su temi tra loro diversi.

Penso all’eliminazione del CNEL che aveva una funzione ai tempi della programmazione economica, ma non più adesso; alla riduzione dei deputati a 400 e i senatori a 200, con una comitato misto per superare le eventuali divergenze; all’introduzione della sfiducia costruttiva nei confronti del Governo, tanto più necessaria qualora si dovesse tornare ad un sistema elettorale proporzionale; la riattribuzione alla competenza esclusiva dello Stato di alcune materie troppo generosamente assegnate nel 2001 alla potestà legislativa concorrente delle Regioni che hanno causato l’immenso contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale, che la riforma Boschi ha cercato di rimediare eccedendo, questa volta, in favore dello Stato.

Modifiche, tutte queste, che comunque non potrebbero essere affrontate in questa fine legislatura, perché, quand’anche ci fosse tempo sufficiente, la XVII legislatura è viziata nella sua rappresentatività popolare, come ha sottolineato la Corte costituzionale nella  sentenza n. 1 del 2014. Per cui, come il Parlamento non avrebbe dovuto approvare la mega-riforma Boschi, così anche non potrebbe nemmeno approvare queste minori modifiche. A meno che – lo aggiungo solo per completezza teorica –  vi fosse la ragionevole certezza che i due terzi delle Camere voterebbero un’ipotetica riforma disomogenea, in un sussulto di sensibilità repubblicana. Infatti solo l’approvazione da parte della maggioranza dei due terzi, escludendo la possibilità del referendum, non coercirebbe la volontà degli elettori e, nel contempo, neutralizzerebbe il difetto di rappresentatività popolare che inficia la XVII legislatura.

2. I rischi della sovranità popolare. Nel commentare l’art. 1 della Costituzione, Carlo Esposito, uno dei maggiori costituzionalisti italiani del secolo scorso, già nel 1948, ebbe  magistralmente a precisare il contenuto della democrazia. Il quale «…non è che il popolo costituisca la fonte storica o ideale del potere, ma che abbia il potere; non già che esso abbia solo il potere costituente, ma che a lui spettino i poteri costituiti; e che non abbia la nuda sovranità (che praticamente non è niente) ma l’esercizio della sovranità (che praticamente è tutto)».

Nonostante questi principi, indiscussi per oltre sessantacinque anni, il governo Renzi ha avuto la pretesa, con la riforma Boschi, di attribuire ai consigli regionali l’elettorato attivo del Senato, privandone i cittadini a cui costituzionalmente appartiene, a chiare lettere, sia la titolarità della sovranità sia l’esercizio di essa.

Dai sostenitori della riforma Boschi a tal fine si è sostenuto che l’inciso del secondo comma dell’art. 1 Cost., relativo alle “forme” d’esercizio della sovranità popolare, consentirebbe appunto l’elezione indiretta del Senato. Il che è inesatto.

Tecnicamente le “elezioni indirette” sono infatti solo quelle effettuate dagli elettori per il tramite dei “Grandi elettori”, come avviene in Francia per il Senato e negli Stati Uniti per il Presidente. Infatti, quand’anche la riforma Boschi fosse entrata in vigore, non si sarebbe potuto certamente sostenere che il Senato sarebbe stato eletto indirettamente dai cittadini per il tramite dell’elezione dei consiglieri regionali. E ciò per la semplice ragione che il compito dei consiglieri regionali non sarebbe stato quello (esclusivo) di eleggere i senatori, ma di adempiere anche, e soprattutto, alle molte funzioni politiche, legislative e amministrative previste dalla Costituzione e dalle leggi.

Se il tentativo di eliminare l’elettività popolare del Senato, in violazione della sovranità popolare, è stata respinto dal popolo col referendum del 4 dicembre, l’eliminazione delle Province – il cui elettorato attivo era da  sempre spettato al popolo – è invece rimasta a metà.

Le Province sono infatti tuttora menzionate nell’intitolazione del titolo V della Costituzione (“Le regioni, le province, i comuni”); sono qualificate nella c.d. legge Delrio (n. 56 del 2014) come “enti di area vasta” ma hanno discutibilmente perso l’elettività popolare. Infatti, come è stato giustamente sottolineato, se la Repubblica si fonda sulla sovranità popolare, gli elementi costitutivi della Repubblica, e cioè le regioni, le province e i comuni, «sono destinati a esercitare la sovranità in forme dirette e non indirette» (E. Cheli).

E’ bensì vero che da decenni si discuteva dell’abolizione delle Province, e quindi si era determinata nei confronti di esse una certa disaffezione da parte della pubblica opinione. Ma, anche a voler ritenere che le Province fossero addirittura politicamente delegittimate, si sarebbe dovuto seguire l’ordine logico – prima abolire le Province a livello costituzionale e poi eliminarle del tutto a livello di legislazione ordinaria – e non invece di ridurre dapprima «le strutture e le funzioni delle Province per arrivare a una loro abolizione rendendole enti inutili» (così ancora E. Cheli).

Una volta approvata e promulgata la legge Delrio (n. 56 del 2014), le Province hanno però continuato ad operare «in attesa della riforma del titolo quinto della Parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione» (art. 1 comma 51).

Il che però fa dubitare che le si vogliano davvero eliminare (E. Rossi). Per cui, se ciò accadesse, le Province, quand’anche decostituzionalizzate, continuerebbero ad esercitare funzioni non affatto secondarie (ad es. la tutela del territorio extraurbano) e i consiglieri provinciali continuerebbero ad essere eletti dai sindaci e dei consiglieri comunali! Con tutte le ovvie conseguenze della cattiva politica quando la trasparenza non viene garantita.

In conclusione, il fatto che il governo Renzi volesse eliminare l’elettività diretta del Senato e che con la legge Delrio abbia introdotto l’elezione indiretta dei componenti dei consigli provinciali, dovrebbe essere motivo di seria preoccupazione. Ciò infatti induce a ritenere  che le elezioni dirette, da una parte importante delle attuali forze politiche, non siano apprezzate per il loro valore democratico.

              Con buona pace della sovranità popolare.

 

(*) Presidente del Comitato per il No

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