Un mondo largo e assai vario guarda con interesse, partecipazione e affetto alla nascita di Sinistra Italiana.
È il mondo che, per la prima volta dopo tanto tempo, ha trovato una forte motivazione, una unità di linguaggio e di obiettivi e infine una clamorosa vittoria nel voto referendario dello scorso 4 dicembre. Dentro i 19 milioni di italiani che hanno votato No ci sono anche, infatti, tutti i potenziali elettori di un partito di sinistra: e davvero erano anni che non lo si sarebbe potuto dire di nessun’altra occasione.
Durante la campagna referendaria chi, come me, si è impegnato come membro di un’associazione o di un comitato ha trovato tra i propri interlocutori tre ‘partiti’: il Movimento 5 Stelle, Possibile e Sinistra Italiana (oltre all’Altra Europa e a Rifondazione). Personalmente resto convinto che i 5 stelle figurino (seppur con mille ombre, e certo soltanto con una parte del loro corpo politico) nella foto di famiglia più larga della sinistra italiana. Ma certo è con Possibile e Sinistra Italiana che il colloquio è stato più naturale, spontaneo, familiare.
Già questo dualismo, tuttavia, motiva la più frequente esternazione che si potesse ascoltare a margine degli incontri sulla riforma costituzionale: “ma quando riusciremo a fare un unico, grande partito di sinistra?”.
Ecco: se questo mondo guarda alla genesi di Sinistra Italiana non è perché pensa che stia nascendo uno dei tanti partitini autoreferenziali da zero virgola, ma perché spera che sia una tappa della costruzione di una ‘cosa’ ben più grande. Una forza aperta, capace di ascoltare: e soprattutto capace di pensare se stessa come l’inizio di qualcos’altro, o, meglio, come parte di un processo più largo.
E la metafora giusta non è quella della cellula che prelude all’organismo: perché bisogna avere il coraggio di non determinare il corredo cromosomico di ciò che dovrà, prima o poi nascere, e che potrà (anzi, dovrà) essere diverso.
Anche molto diverso, se vorrà dare voce, rappresentanza e corpo nazionale alle mille, nuovissime sinistre che esistono ‘in basso’, lungo la lunghissima Penisola. Anche Sinistra Italiana, infatti, non potrà che partecipare al processo genetico che la vittoria del No ha inevitabilmente messo in moto: quello della nascita di una Sinistra di massa, in Italia.
Nel tatticismo che domina la vita politica italiana è inevitabile che si attenda la sentenza della Corte Costituzionale sull’Italicum e dunque la legge elettorale che verrà. Che si attenda l’esito della battaglia ingaggiata del clan renziano per conservare il controllo del Pd, e dunque che si attenda di conoscere la sorte di quest’ultimo partito: riuscirà o non riuscirà a rientrare tutto intero in quella famosa foto di famiglia della sinistra italiana, o ne uscirà del tutto? E in quest’ultimo caso che farà la sua famosa sinistra interna, D’Alema incluso?
Attese e domande legittime, certo. Ma se fossero queste domande a dominare il dibattito del congresso della nascita di Sinistra Italiana, magari con una conseguente conta interna tra minoranza e maggioranza, e con ulteriormente conseguente posizionamento di ceto politico: ecco, se si cominciasse così, si finirebbe prima di cominciare. In un delizioso, recente libretto (La causa più originale che ho difeso, Edizioni Henry Beyle) si può leggere un intervento che Piero Calamandrei fece alla radio nel febbraio del 1955. Al centro della causa di cui parlava, c’era un signore animato da un’unica ragione di vita: danneggiare i propri vicini. Calamandrei difese quei vicini appellandosi al principio contenuto nell’articolo 844 del Codice Civile, che stabilisce che “il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri”. Una tipologia antica, commenta Calamandrei rammentando le parole di Giavoleno (giurista dell’epoca di Traiano) su “un vicino che si dilettava di far fuoco in casa sua ‘superioris vicini fumigandi causa’, per il gusto di affumicare il vicino del piano di sopra”.
L’avvocato Giuliano Pisapia non si offenderà se dico che la sua proposta di un Campo Progressista organico al Partito Democratico ‘a prescindere’, mi pare aver qualcosa a che fare con questa fenomenologia trattata dall’avvocato Piero Calamandrei. Più in generale mi pare che gran parte della storia ultima della sinistra italiana si possa spiegare in questi termini.
Ecco, se vuole avere un senso Sinistra Italiana deve essere lontanissima da tutto ciò: anzi, dev’essere tutto il contrario. Dev’essere un luogo dove si discute fino in fondo di come provare a sciogliere i nodi cruciali (uno su tutti: il rapporto con l’Europa e con la sua moneta), non un luogo dove ci si diletta ad affumicare i vicini, interni ed esterni.
È per questo che in molti ci aspettiamo che Sinistra Italiana nasca senza ipoteche, senza vincoli, senza zavorre. Una sinistra che – per parafrasare un detto che riguarda la terra – senta se stessa come un prestito dai nipoti che verranno, più che come un’eredità avuta dai nonni, o dai padri. Un anticipo di futuro, insomma.
innanzitutto grazie. Grazie per le cose che scrivi e per l’attenzione che rivolgi al congresso fondativo di Sinistra Italiana.
Non è scontato, né usuale. Al tempo delle piccole patrie e della gelosa custodia dei propri recinti, è un fatto nuovo e bello che un compagno di strada metta nero su bianco e pubblicamente ciò che pensa, in positivo, segnalando possibilità e rischi, rispetto al lavoro che una forza politica si appresta a intraprendere.
Per riprendere la frase finale del tuo scritto, anche questo mi sembra un anticipo di futuro. Un futuro molto più incoraggiante di ciò che abbiamo davanti.
Sono d’accordo su tutto ciò che scrivi. Che di tatticismo si muore, innanzitutto. Che le speranze della Sinistra in questo paese spesso si sono infrante sui posizionamenti a prescindere, come sulle attese spasmodiche che qualche Godot arrivasse. La Sinistra come riflesso condizionato di ciò che accade da qualche altra parte.
Per questo continuo ad affermare e ne sono sempre più convinto che abbiamo bisogno di recuperare piena autonomia di pensiero, di analisi e di azione.
Ben sapendo che il congresso di Sinistra Italiana è un punto di partenza, non di arrivo. Dove sia diretta questa partenza? Dobbiamo stabilirlo tutte e tutti insieme. Ma la campagna referendaria che ci ha portato alla vittoria del 4 dicembre, ho avuto modo di dirlo più volte, ci ha offerto una traccia utile. Ha segnato un percorso virtuoso, capace di produrre risultati politici importanti, non solo perché siamo riusciti collettivamente a mettere in sicurezza la nostra Costituzione, ma anche perché a partire da quell’esperienza in molti territori sono nati spazi fisici comuni e luoghi di discussione collettivi che oggi lavorano insieme.
Sinistra Italiana, Possibile, le esperienze più avanzate del civismo, movimenti e comitati di diversa natura in molte nostre città già lavorano insieme. Dopo la difesa della Costituzione si preparano a costruire una proposta per un’alternativa nelle amministrazioni locali e già lavorano al successo dei referendum della Cgil.
Senza ipoteche, appunto. Ma forse con un vincolo: rimettere al centro della proposta l’enorme questione sociale cui il resto del panorama politico non riesce a dare risposte adeguate. La questione sociale e quella democratica, magari impegnando le proprie forze perché si possa arrivare ad una legge elettorale proporzionale. Per mettere fine alla stagione del governo del capo, del governo senza e contro il popolo.
Questa potrebbe essere una traccia da seguire, l’inizio di un percorso. Ho molto a pprezzato, ad esempio, una recente intervista di Pippo Civati che propone di iniziare sin da subito a discutere del mondo e di ciò che del mondo vogliamo fare, proprio per evitare che tutto il fermento politico e sociale che si è messo in moto in questi mesi trovi come unico sbocco possibile un abbrivio di tipo elettoralistico.
Così come penso che l’assemblea nazionale dei comitati del NO alla riforma Costituzionale che si è svolta sabato a Roma e alla quale abbiamo partecipato esprima una eccedenza democratica e popolare molto importante.
Abbiamo bisogno di questo. Di confronti e approfondimenti. Ne ha bisogno anche e soprattutto Sinistra Italiana nel suo congresso fondativo.
Citavi il nodo dell’Europa, non a caso. Ce ne sono altri di cui Sinistra Italiana deve discutere, senza caricature. Se siano ancora sostenibili orari di lavoro che non concedono nulla al tempo della vita della persona; se non sia arrivato il tempo anche in Italia di introdurre un reddito che non sia una misura compassionevole; se sia accettabile andare in pensione a 70 anni; quali speranze si possano riporre
nelle nuove forme di economia e quali rischi prefigurano. Come mettiamo in campo la revisione radicale del sistema economico che arricchisce i pochi già ricchi a scapito degli altri.
Sempre più spesso in questi giorni, soprattutto quando leggo i consigli di coloro che vogliono metterci in guardia dalle nostre “proposte belle ma irrealizzabili”, mi viene in mente il titolo del libro di uno dei più grandi pensatori e politici comunisti italiani, Pietro Ingrao. “Volevo la luna”, diceva lui.
Ecco, penso che Sinistra Italiana debba nascere con questo scopo: volere la luna. Ancora. Non rassegnarsi all’idea che la politica finisca nel quadro delle compatibilità date. Non rassegnarsi all’idea che tutto ciò che di peggio accade alla vita delle persone sia inevitabile. Perché questo è il meccanismo con cui hanno letteralmente fottuto intere generazioni negli ultimi anni. L’altare su cui si è immolata un’intera cultura politica. Aver ceduto all’idea che povertà, disuguaglianze, riduzione dei diritti, fossero l’unico modo per portare un piatto a tavola.
Credo che la strada, la nostra strada, debba essere questa.
Ti aspetto al nostro congresso fondativo, a Rimini per continuare a discutere e lavorare assieme.
Huffington Post, 22 gennaio 2017
Come opporsi alla riforma costituzionale dei cinque stelle.
Ugo Mattei: “Lo stimolo per far ripartire la proposta del Comitato Rodotà maturato osservando il disastro del Morandi”
Sono andato immediatamente a studiare la proposta del comitato Rodotà. Sarebbe stato bellissimo essere riusciti a fare quanto sostiene la logica riformatrice di Rodotà! Sarebbe ancora bellissimo riuscire a convincere gli italiani della buona ragione di applicare la proposta!
Purtroppo, mi pare un miraggio. Allora dobbiamo arrenderci? No, sarebbe la catastrofe della società.
Io credo che per tentare di battere l’avversario in una competizione sia necessario guardare tutti gli aspetti che entrano in gioco nella stessa e studiarli tutti con grande attenzione cercando di scoprire i punti deboli dell’avversario.
Dobbiamo perciò conoscere innanzitutto il gioco al quale si vuole partecipare e diventare migliori giocatori. Il primo punto è che il giocatore subisce un test di entrata. Il test di entrata si concretizza esso stesso come parte del gioco perché di fatto l’aspirante giocatore esegue il test partecipando in un ambito ridotto semplificato a un gioco molto simile a quello al quale si prefigge di partecipare successivamente. Definiamo l’ambito perché nello stesso si concretizzano le regole e le modalità in cui il gioco viene eseguito e perciò prima l’aspirante giocatore e successivamente il giocatore stesso non devono prescindere dall’ambito nel quale il primo test e quello definitivo hanno luogo. Per definire l’ambito penso sia necessario approssimarci alla determinazione per passi successivi della sua essenza.
Cominciamo dicendo che l’ambito è costituito da persone alle quali è stato assegnato e che hanno assunto uno stato di partecipazione alla comunità di un territorio, integrandosi nella stessa, di modo che questa si possa considerare una associazione, una società di cittadini.
Ma i cittadini conservano la propria qualità di persone che si concretizza nelle proprie specificità di vivere in relazione con le persone prossime e comunque con quelle legate da interessi che intercorrono in modi diversificati di parità oppure di diseguaglianza gerarchica fra le parti in relazione.
La competizione politica istituzionalizzata assegna al cittadino il compito di eleggere, partecipando alle votazioni, i propri rappresentanti ciascuno dei quali si dovrà dedicare per il periodo di incarico stabilito a gestire insieme agli altri rappresenti le modalità di vita della società. I rappresentanti dovrebbero far corrispondere la propria azione politica a quanto nel dibattito preelettorale gli aveva procurato consenso.
Cerco ora di far corrispondere questa esposizione molto semplificata dell’ambiente in cui ha luogo la competizione ad un numero limitato di variabili d’influenza sull’opinione pubblica che sottintendono naturalmente tante situazioni diverse. La sintesi è necessaria perché l’azione di convincimento deve esprimere una direttiva potente, cioè che si possa contrapporre a quella sicuramente potente dell’avversario finora vincente. Per le variabili di influenza sull’opinione pubblica le stesse possono essere rese classificabili attraverso le relazioni che intervengono nell’esistenza dei cittadini.
Esprimo perciò l’idea che la suddivisione delle variabili che influenzano l’opinione pubblica si potrebbe fare distinguendole attraverso le controparti con le quali ogni cittadino in ragione del proprio modo di vivere si mette in relazione.
Ma piuttosto che impegnarmi nell’elaborazione di una nuova teoria mi sembra più produttivo esplorare le modalità di esistenza della comunità umana per riconoscere se già esistono situazioni simili.
Salta immediatamente agli occhi che il mercato si è insediato nella comunità umana di modo che qualsiasi aspetto della vita umana non può che sottostare alla sua logica. Le competizioni elettorali si distinguono dalle altre soltanto per il prodotto venduto. Le campagne elettorali non possono distinguersi per quanto riguarda le strategie dalle campagne di promozione per la vendita di un prodotto. Le forze politiche che non inseriscono le strategie di mercato per quanto buono possa essere il loro prodotto sono destinate alla sconfitta. Allora oltre che studiare i miglioramenti del prodotto conviene attrezzarsi con esperti di promozione dello stesso. Purtroppo, gli avversari sono molto più avanti in questa preparazione.
Entriamo nel merito del criterio capitalistico nella sua forma che cerca di esprimere buna società e cerchiamo di coglierne le contraddizioni che producono invece evoluzione negativa.
La Repubblica, 27 maggio 2019
PARIGI – «Finché non cambieremo il sistema economico e fiscale in Europa, non sarà davvero possibile sconfiggere movimenti populisti come quelli di Marine Le Pen e Matteo Salvini». Dal suo osservatorio sulle disuguaglianze nel mondo, a cui ha dedicato il voluminoso saggio Il Capitalismo nel XXI secolo, Thomas Piketty confessa di essere “frustrato” dal risultato delle elezioni europee. «La collera che alimenta i nazionalismi è fomentata dall’ assenza di un modello sociale e fiscale più giusto» spiega l’economista francese che ha promosso, insieme ad altre personalità, un Manifesto per la democratizzazione dell’Europa che ha già raccolto oltre centomila firme.
Segue l’intervista a Piketty
In Francia e in Italia i sovranisti escono vittoriosi. Sorpreso?
«No perché sono convinto che buona parte del rifiuto per l’Europa sia dovuto al sentimento di ingiustizia fiscale. Il voto per i sovranisti rispecchia perfettamente il livello di reddito e di diploma.
La nuova contrapposizione politica è tra classi lavoratrici e classi più privilegiate che detengono un patrimonio. Se continuiamo a dire che il voto a Le Pen è dovuto solo a nazionalisti xenofobi arretrati ci sbagliamo di grosso».
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Condivido l’analisi della situazione di fatto, ma dopo?
Macron ha proposto un bilancio dell’eurozona. Non le va bene?
«È un progetto estremamente vago e che dimentica il cuore del problema: la lotta alle disuguaglianze. D’altronde per Macron è difficile parlare di giustizia fiscale in Europa dopo aver abolito in Francia la patrimoniale. E così l’unico argomento di cui tutti parlano è la caccia agli stranieri».
Qui intravvedo i primi segnali delle contraddizioni: Il sistema economico vigente vive facendo perno sulle diseguaglianze di reddito ritenute necessarie a creare i capitali per intraprendere le attività. Ma il reddito assolve alla funzione sicuramente necessaria all’individuo per farlo vivere, possibilmente, nelle migliori condizioni. Tutti coloro che vedono altri godere di un reddito superiore al proprio aspirano a raggiungere quel reddito e procurano così di aumentare la diseguaglianza di reddito con chi lo ha già inferiore. Siamo perciò costretti ad utilizzare un sistema fiscale più giusto per riequilibrare le condizioni di vivibilità di chi ha reddito troppo basso.
Quanta maggiore chiarezza facciamo sui termini del problema tante più chiare ci appariranno le contraddizioni e l’inefficacia delle misure. Allora: quale è il compito del sistema fiscale? Come possiamo creare un sistema fiscale più giusto senza definirne in modo preciso la funzione? Il fisco ha la funzione di costituire il capitale dello Stato o quello di risolvere le differenze dei redditi individuali? Come si può definire il reddito individuale? Esistono forme di reddito non riferibili all’individuo ma a insiemi di individui? Come si differenziano le prime dalle seconde? Perché il sistema fiscale esprime oltre alle tasse che si rivolgono alle persone e a particolari insiemi di persone anche l’altra tipologia rivolta ai beni, siano gli stessi materiali o di servizio? Come si può esprimere in conseguenza della proliferazione delle tipologie l’incidenza delle tasse sul reddito dell’individuo? Quanti e quali motivi di sperequazione esistono in modo indipendente dalle tasse?
Già tutto questo insieme di domande, anche senza rispondere a ciascuna delle stesse è l’indice della confusione di questo caos, articolato per farlo gestire dai professionisti preposti a tutto vantaggio degli stessi, pagati per seguire la burocrazia della legge e altrettanto vantaggioso per chi specula sulla confusione per trarne vantaggio.
A me sembra che il principio fondamentale del sistema economico attuale che il reddito individuale non abbia limiti né inferiori né superiori imposti per legge, ma dipenda dalle capacità di appropriarsene dell’individuo sia stato e continua ad essere la spinta generativa di questo sistema economico. Osservo che il reddito complessivo corrisponde alla capacità produttiva globale e solo oggi cominciamo a renderci conto che se possiamo fare aumentare la capacità produttiva esiste però invalicabile il limite delle risorse utilizzabili disponibili. Se il risultato di questa economia non ci piace dobbiamo cambiare il principio fondamentale sul quale si regge.
Se non si agisce in questo modo la sperequazione esce dalla porta e rientra dalla finestra, col risultato che tutto rimane come prima. È come quando, come si faceva una volta nelle famiglie, all’ora di pranzo il pentolone con la minestra si metteva sulla tavola e chi aveva le braccia più lunghe mangiava mentre chi le aveva troppo corte rimaneva affamato. Per quanto si aumenti il contenuto della pentola chi ha le braccia lunghe si ingozzerà sempre di più. La soluzione è solo di dividere inizialmente la minestra a secondo della quantità disponibile e delle necessità di ciascuno.
Sia chiaro che non ho proprio nessuna intenzione di fare passare per semplice una cosa estremamente complicata; infatti, introdurre i limiti di reddito individuale massimo e minimo ha significato solo se si modifica completamente il sistema economico e propone di conseguenza una ulteriore domanda fondamentale: che cosa è l’economia della comunità umana? Secondo me è l’insieme dei comportamenti e delle abitudini umane che diventate il modo di gestire le relazioni fra gli uomini permettono alla società degli stessi di esistere.
Credo che si possa parlare di società umana positiva quando la stessa aspira al vivere migliore possibile di tutti i suoi componenti. La buona economia è perciò lo strumento essenziale per fare evolvere la società col proposito del raggiungimento di quella aspirazione. Non dobbiamo confondere perciò l’economia con gli strumenti inventati dall’uomo per gestirla e perciò non con lo strumento oggi preminente che è il denaro.
Nell’ambito della società hanno luogo tutte le attività umane e fra queste quelle produttive. La confusione dei termini del problema che scambia la gestione del denaro con quella di ogni decisione economica si ripercuote sulle decisioni che spingono le comunità di uomini che vivono sui territori della terra a intraprendere collettivamente le attività. Inteso in questo modo il denaro diventa potere per chi ne ha di più e sospinge l’economia a farlo aumentare dove si è già accumulato. L’ultima domanda angosciosa è riuscirà mai l’uomo ha superare questa difficoltà culturale che sembra impedirgli di attuare la vera economia?