Tortura. Quando il dominio sul corpo del nemico si fa simbolo dell’esercizio del potere

17 Gen 2017

Pronunciare la parola indicibile è già operazione di chiarezza. Invita a indagarne il significato, a vedere se o meno corrisponda a situazioni, pratiche, fatti che conosciamo, che sappiamo esistere; li rende presenti con tutti gli interrogativi che tale presenza determina.
È quindi positivo che la parola tortura sia tornata a essere detta. Ma, seppure tolta dall’imbarazzo linguistico, non di meno la tortura continua a essere negata dagli apparati di potere che la praticano. Poiché «nessun regime neppure quello dittatoriale, ammetterà mai il ricorso alla tortura perché significherebbe ammettere la propria illegittimità». Sono le parole dello psicoanalista Miguel Benasayag, torturato durante la dittatura del generale Videla in Argentina, che ricorda come i suoi torturatori, che pur realizzavano una sorta di prossimità feroce tra il loro corpo e il suo che martoriavano, si guardavano dall’essere identificati come funzionari dello Stato; non affermavano la visibilità del potere assoluto, ma si celavano dietro una fantasiosa appartenenza a corpi separati, civili.

L’EPISODIO LO RIPORTA Donatella Di Cesare, che dal duplice punto di vista della filosofia teoretica e dell’analisi storico-critica, ripercorre la persistenza della tortura, il suo consolidarsi anche in termini dialogici nel presente e la continuità del tratto indelebile che lascia nella vittima, come «propria morte esperita in vita» (Donatella Di Cesare, Tortura, Bollati Boringhieri, pp. 217, euro 11).
Molte pagine del suo libro sono dedicate al dibattito sorto dopo il settembre 2001, in larga parte oltre Atlantico, ma per taluni aspetti anche nel vecchio continente. Un dibattito che non ha superato il tabù della negazione, ma lo ha aggirato, attraverso locuzioni contorte che ruotano attorno a concetti di eccezionalità, necessità, utilità dando a essi sinistri significati.

DI CESARE NE TROVA le premesse già nella posizione assunta da Thomas Nagel, più di quaranta anni fa nel periodo della guerra in Vietnam, circa il dilemma morale tra teorie assolutiste e teorie utilitariste, le prime che danno priorità a ciò che si fa, agli schemi valoriali di riferimento, le seconde centrate invece su ciò che accadrà, sulle conseguenze in gioco. Nessun problema per Nagel nel sostenere queste ultime, liquidando l’assolutismo – e quindi il divieto assoluto della tortura nelle Dichiarazioni e Convenzioni dal secondo dopoguerra – come un ideale regolativo insensatamente astratto e provvidenzialmente irrealizzabile.

Anche se il contesto dell’analisi del filosofo analitico è quello bellico, la sua posizione apre alla possibilità di considerare comunque la tortura una opzione eventuale. Tema, questo che da una prospettiva diversa verrà ripreso da Michel Walzer nell’affermazione della necessità per chi ha responsabilità politica di misurarsi anche con le «mani sporche», quasi «nobilitando» la scelta di accettare il fardello morale di un crimine, non reso meno da grave da considerazioni apparentemente necessitanti. Per giungere così al dibattito degli ultimi quindici anni, alla posizione di Alan Dershowitz che Di Cesare sintetizza in una intrigante parola chiave: accountability. Intrigante perché si è abituati a declinarla nel suo significato positivo, di assunzione di responsabilità. Giacché la tortura persiste – ragiona il penalista americano, che si era abituati a collocare nel fronte democratico – ne regoliamo la pratica, la rendiamo trasparente e limitata.

SCRIVE IN PROPOSITO l’autrice: «Al torturatore nobile Dershowitz preferisce l’esperto che mentre conferisce di volta in volta il mandato, autorizzando la tortura, si impegna anche a far luce garantendo la trasparenza, consentendo quella accountability, senza la quale non sarebbe immaginabile la democrazia». Questa pretesa di «portare il diritto nelle stanze oscure degli interrogatori» ha in parte lambito la discussione in alcuni Stati europei che, a metà del primo decennio di questo secolo, hanno proposto di limitare l’assolutezza del divieto di tortura enunciato nella Convenzione europea per i diritti umani, bilanciandolo con le esigenze di sicurezza, quale altro bene da tutelare in modo assoluto.

Una posizione, questa, respinta, ma che ritorna di tanto in tanto quando l’uso legale della forza, il diritto e l’esercizio di giustizia vengono declinati come strumenti di lotta verso un presunto nemico, sia esso un singolo, una organizzazione, un gruppo sociale il cui stesso esistere viene assunto come potenziale aggressore di chi ha la responsabilità di agire in nome della collettività. Lo schema relazionale che si stabilisce diviene allora un derivato della dinamica di guerra e il dominio sul corpo del nemico diviene simbolo e concretezza dell’esercizio di potere.

IL LIBRO SPAZIA lungo gli esempi negli anni recenti che rimandano a questa torsione (l’etimo è lo stesso della parola tortura), dalla tortura politica latino-americana agli episodi europei, inclusi quelli che hanno riguardato l’Italia: gli interrogatori in occasione del sequestro Dozier, le morti purtroppo ormai famose di giovani fermati e privati della libertà, l’epifania della violenza del potere nei giorni di Genova. Tutti casi in cui la parola negata, tortura, è stata scritta in sentenze; anche per dire che non vi è ancora nel nostro codice la possibilità di riconoscerla, chiamarla con il proprio nome e punirla adeguatamente.

Ma, anche casi ripresi per ricordare che la previsione del reato, assolutamente essenziale, non risolve del tutto il nostro rapporto con la tortura, con la corporeità perversa che essa rappresenta, con il suo intrinseco rifiuto del limite necessario. Ancora una volta il diritto non basta; ancora una volta – ci ricorda l’autrice – occorre interrogarci più in profondità.

 

il manifesto, 15 dicembre 2016

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